Bilancio pluriennale: il vero ostacolo sul futuro dell’Ue
Non ci sarà troppo da preoccuparsi se il Consiglio europeo straordinario di questa settimana non chiuderà il discorso sul prossimo quadro finanziario pluriennale dell’Ue, il bilancio settennale 2021-27. Si tratta, in effetti, di una decisione complicatissima, in cui entrano in conflitto interessi nazionali divergenti ed esigenze dell’Unione. La scorsa volta, per il bilancio 2014-20, la trattativa è durata 2 anni e mezzo.
Abbiamo ancora quasi un anno intero davanti a noi. Tuttavia, oggi il negoziato è molto più difficile di quanto non lo sia stato allora. Da una parte, infatti, dobbiamo confrontarci con l’abbandono del Regno Unito e con le conseguenze anche contabili di questo aspetto, ovvero un “buco” di circa 12 miliardi di euro; dall’altra, l’Unione si trova sempre più sola in un mondo di crescente ostilità e competitività, che necessita di risposte e politiche in gran parte diverse dal passato e, quindi, di un bilancio innovativo e più consistente. Basti pensare ad alcuni punti del programma della Commissione presentato da Ursula von der Leyen o all’agenda strategica del Consiglio europeo di fine 2019: una nuova politica digitale – annunciata da ultimo ancora ieri – strettamente collegata ad un Green Deal europeo che dovrebbe portarci nel 2050 ad emissioni zero, o ancora uno sforzo maggiore nel campo della difesa comune per dare credibilità e peso alla politica estera dell’Unione. Insomma, una serie di impegni che richiedono un bilancio ben più grande dell’attuale o, in alternativa, una diversa allocazione delle spese.
Qui cominciano i guai. Il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, gran maestro di compromessi nel suo complicato Paese ed oggi alle prese con il primo scottante compito nel suo nuovo incarico, ha proposto un bilancio complessivo nel settennato pari all’1,074% del reddito nazionale lordo Ue, meno del 1,11% proposto dalla Commissione ma più dell’1% secco dei cosiddetti 4 Paesi “frugali” (Olanda, Danimarca, Austria e Svezia). Sempre questi quattro sono il gruppo di testa di quei Paesi “anseatici” che si oppongono a qualsiasi tentativo di allentare i criteri di austerità che regolano i paesi membri dell’euro, con un occhio di particolare riguardo per l’Italia.
I pericoli del rebate
Dietro a questa resistenza all’aumento del bilancio complessivo dell’Ue si nasconde una pericolosissima filosofia, quella di considerare il contributo nazionale al bilancio comune in termini strettamente contabili di costi e benefici. I quattro Paesi in questione si collocano fra i contributori netti, chi più chi meno, al bilancio Ue ed oggi si nascondono dietro l’uscita del Regno Unito per pretendere non solo il blocco di qualsiasi aumento, ma anche e soprattutto una restituzione permanente dal bilancio Ue. Si tratta del cosiddetto “rebate”, una delle peggiori eredità che Londra ha lasciato all’Unione fino dal lontano 1984, quando Margaret Thatcher lanciò la famosa invettiva “I want my money back”. Il rebate le fu concesso, eppure questo non ha certo reso il Regno Unito più entusiasta del progetto europeo, anzi portandola oggi alla Brexit.
Insomma, il contributo nazionale al bilancio comune non può essere calcolato in modo ragionieristico, ma vanno interpretati i vantaggi indiretti della partecipazione al grande e libero mercato unico europeo. EU Observer calcola, ad esempio, che l’Olanda ha introiti di 1 euro e mezzo per ogni euro di contributo al bilancio comune grazie al proprio commercio comunitario. D’altronde, i quattro sono i Paesi più ricchi dell’Ue, cui si aggiunge anche la Germania che a sua volta riceve dei rimborsi, e certamente questa grande ricchezza non cade dal cielo, ma dall’esistenza dell’Unione. Pretendere quindi che le restituzioni diventino permanenti, come chiedono il premier olandese Mark Rutte e i suoi colleghi, è davvero una richiesta irricevibile.
Restituzioni regressive e nuove opzioni
Per risolvere la questione, Charles Michel propone quindi delle restituzioni regressive, fino alla loro scomparsa. Ma se questa sarà una battaglia che gli altri partner, a cominciare da Francia e Italia, intendono fare contro le pretese dei quattro falchi, rimane poi sullo sfondo la misura complessiva del futuro bilancio comunitario, necessaria per rendere possibili le nuove politiche proposte dalla Commissione. Michel, ad esempio, indica in 21,9 miliardi la crescita di spese per l’immigrazione e la difesa dei confini e in 7 miliardi il contributo al Fondo europeo per la Difesa: cifre, fra il resto, in drastico calo rispetto alle proposte originarie della Commissione. Rimane invece allo stesso livello di richiesta la spesa di 7,5 miliardi per il “Just Transition Fund”, che dovrebbe essere utilizzato a favore di quelle regioni che devono uscire dall’industria carbonifera per un’Europa più verde.
È abbastanza evidente che questi fondi aggiuntivi non sono davvero sufficienti per rispondere alle ambizioni delle agende strategiche della Commissione e del Consiglio europeo. Si prospettano quindi due opzioni. La prima è quella di utilizzare in modo nuovo le tradizionali voci del bilancio comunitario, sia allocandole diversamente sia utilizzandole in modo più appropriato. Ad esempio, le spese per la Politica agricola comune, che costituiscono il 30% del bilancio, possono essere usate in gran parte per lo sviluppo delle tecnologie digitali applicate all’agricoltura, con notevoli vantaggi anche in termini di tutela ambientale.
Il dibattito sulle risorse proprie
La seconda opzione è quella di accrescere le “risorse proprie” dell’Unione, cioè quelle entrate indipendenti dai contributi nazionali, attraverso tasse come la carbon tax o la web tax o quella sulle plastiche. Strada teoricamente più interessante, anche perché lo spostamento delle voci di bilancio sta incontrando l’opposizione di ben 16 Paesi Ue, chiamati “Amici dei Fondi di Coesione”, che non vogliono modifiche sostanziali al loro utilizzo.
Insomma, come è chiaro da questa rapida e parziale rassegna di elementi problematici, la battaglia sul bilancio Ue continuerà a rappresentare uno dei passaggi più complicati della vita comunitaria. Questa volta, tuttavia, sono in gioco non solo gli interessi interni dell’Ue, ma anche il suo ruolo di attore geopolitico mondiale, come richiesto e sottolineato ripetutamente da Ursula von der Leyen. Sarebbe davvero un grande miracolo se i leader dei 27 riuscissero ad aprire lo sguardo al di là del loro contingente interesse nazionale.