IAI
La scelta dello sfidante di Trump

Al voto in Iowa: ecco l’identikit degli aspiranti alla nomination

2 Feb 2020 - Lucio Martino - Lucio Martino

Ieri sera, a confrontarsi sugli schermi di quasi cento milioni di telespettatori, oltre che alle due squadre di football in finale al Superbowl sono stati anche due contendenti alle elezioni presidenziali del prossimo 3 novembre, a poche ore dall’inizio della stagione di caucusprimarie, con il voto nello Iowa.

Il primo ad aver deciso di sconfinare in una dimensione pubblicitaria in genere riservata a prodotti quali birre, auto e film – anche a costo di spendere quella decina di milioni di dollari necessari per comprare uno spazio dell’ordine di soli sessanta secondi – è stato il miliardario ed ex sindaco di New York Mike Bloomberg. Il secondo è stato il presidente Donald Trump, intervenuto nel tentativo di bilanciare la relativamente inedita mossa del suo, per il momento, distante rivale.

Distante perché Bloomberg è ancora basso nei sondaggi, nonostante che per sostenere la sua candidatura abbia finora speso circa 200 milioni di dollari, più di chiunque altro. Certamente più dell’altro uomo d’affari in corsa per incassare la nomination del Partito democratico, Tom Steyer, che al momento di milioni di dollari ne ha spesi 130. E questo mentre gli altri dodici candidati ancora attivi, nell’insieme, non hanno investito nelle rispettive campagne elettorali più di un centinaio di milioni di dollari.

La rincorsa di Bloomberg 
Sebbene tutto sia sempre possibile, sembra davvero poco probabile che l’investitura di un Partito democratico a sinistra come mai prima d’ora potrà mai cadere sul 77enne Bloomberg, vale a dire su di un ex repubblicano che nel 2004 ha appoggiato la ricandidatura del presidente George W. Bush, che si è sempre dichiarato quantomeno scettico nei confronti di ogni soluzione redistributiva del reddito e che da sindaco ha legato il suo nome a iniziative bollate come razziste proprio da quell’universo progressista ora indispensabile per affermarsi vittoriosamente alla convention del partito prevista per la metà di luglio a Milwaukee, in Wisconsin. Ciò detto, è ancora più interessante notare come Bloomberg abbia deciso d’investire nel Superbowl nonostante a lui – entrato in corsa in ritardo rispetto agli avversari – sia preclusa l’intera prima fase delle primarie democratiche. Per Bloomberg il momento della verità arriverà tra un mese, con il Super Tuesday del 3 marzo, giorno in cui andranno al voto California, Texas e altri dodici stati.

Steyer, l’improbabile multimiliardario
Steyer andrà invece incontro al volere degli elettori prima il 3 febbraio in Iowa e poi, otto giorni dopo, in New Hampshire, due Stati dove è in testa solo nelle classifiche di spesa. Finora, il 62enne californiano si è soprattutto distinto per esser stato tra i primi a rivendicare la necessità di rimuovere Trump dalla Casa Bianca. In questi lunghi mesi di campagna elettorale, Steyer si è poi dimostrato intenzionato a tradire la sua stessa categoria, quella dei multimiliardari, in favore di politiche volte a combattere tanto il cambiamento climatico quanto l’influenza del grande capitale negli affari politici. Malgrado gli sforzi fin qui effettuati, Steyer sembra non esser ancora riuscito a convincere una parte sostanziale dell’elettorato democratico dell’opportunità rappresentata dalla sua candidatura.

La stella Sanders
Multimiliardari a parte, è Bernie Sanders a guidare ogni graduatoria che combini insieme disponibilità finanziarie e posizioni attribuite dai sondaggi. Il 78enne senatore del Vermont sta andando alla grande, forte di un gran numero di volontari e di un numero ancora più grande di finanziatori individuali. La sua macchina elettorale non ha pari, come la sua coerenza politica. Battaglie quali la cancellazione del debito universitario e la realizzazione di un sistema di copertura sanitaria universale sono a lui da tutti ricondotte. Quella di Sanders sembra una candidatura oggi molto più forte di quella di quattro anni fa. Tuttavia, a differenza di allora, Sanders non è più il solo a occupare la sinistra del partito.

La sorpresa Buttigieg
Il risultato dell’Iowa e del New Hampshire è poi ipotecato da Pete Buttigieg, la vera sorpresa di questa stagione politica. L’apertamente gay ex sindaco di una piccola cittadina dell’Indiana, South Bend, è riuscito a soli 37 anni a concentrare su di sé l’attenzione di così tanto pubblico e così tanti finanziatori da superare tutti gli altri candidati tranne Sanders. In questi ultimi sei mesi, Buttigieg ha fatto del suo meglio per occupare saldamente il centro del partito ma, per quanto forte, la sua candidatura continua a esser frenata dall’assenza quasi totale di risonanza tra l’elettorato di colore, circostanza che potrebbe costargli cara in Nevada e South Carolina, gli altri due Stati chiamati al voto prima del Super Tuesday.

Warren, esperienza e incertezza
In questa particolare classifica che combina insieme finanziamenti e sondaggi, il terzo posto è occupato da Elizabeth Warren. La 70enne senatore del Massachusetts ha scalato il vertice del Partito democratico grazie a una serie di politiche tanto audaci da contendere a Sanders la guida dell’intero schieramento progressista. Come quest’ultimo, Warren vuole affrontare l’enorme diseguaglianza che caratterizza l’odierna situazione economica statunitense incrementando la pressione fiscale sulle entità più abbienti. Ma, a differenza di quest’ultimo, a Warren non è riconosciuta una forte coerenza d’impegno, anche per via di passi falsi come quello in cui ha rivendicato illegittimamente una sua origine nativo americana. Inoltre, Warren ha di recente modificato la propria strategia elettorale al fine di raccogliere l’eredità di quei candidati, in maggioranza moderati, che negli ultimi tempi hanno abbandonato la competizione elettorale.

La tela dell’ex vicepresidente Biden
Sebbene Joe Biden sembri il miglior candidato per un ritorno a quell’età dell’oro che per molti democratici corrisponde agli otto anni delle due amministrazioni Obama, il 77enne ex vicepresidente ha raccolto un volume di finanziamenti sensibilmente inferiore a quello dei suoi più diretti competitor. Forte dell’indiscusso sostegno di ampi settori dell’elettorato democratico, in particolare dei più anziani e degli afroamericani, Biden promette un moderatismo che potrebbe portarlo a scegliere come suo candidato alla vicepresidenza addirittura un repubblicano, mentre assicura una competenza in politica estera che nessuno degli altri contendenti può neppure sfiorare. Tutto lascia supporre che Biden potrà permettersi di perdere in Iowa e New Hampshire, ma per continuare a puntare sulla Casa Bianca dovrà affermarsi in Nevada e South Carolina.

L’abile Yang, protagonista dei dibattiti
Ad onor del vero, Bloomberg e Steyer non sono gli unici due uomini d’affari in lizza per la nomina del Partito Democratico. Ce n’è un terzo, Andrew Yang, 44enne figlio di una coppia di immigrati taiwanesi sostenitore della necessità di combattere la disoccupazione conseguente a una sempre maggiore robotizzazione del lavoro attraverso l’istituzione di un reddito universale pari a un migliaio di dollari al mese. Tra tutti, Yang è sicuramente quello che ha saputo fare di più con meno, sfruttando così bene i social media da classificarsi subito dopo Biden quanto a raccolta fondi e subito sopra i requisiti minimi di popolarità prescritti dal Partito Democratico per partecipare a quasi tutti i dibattiti televisivi, compreso il prossimo in calendario per metà febbraio. Almeno per il momento, Yang sembra però più in grado di avere un impatto sui contenuti della futura piattaforma democratica che sul risultato di questa prima fase elettorale.

La carta centrista di Klobuchar
Un altro candidato di spicco, l’ultimo di questa serie, è il senatore del Minnesota Amy Klobuchar. Relativamente giovane con i suoi 59 anni, Klobuchar nella sua esperienza al Senato è riuscita a costruirsi una reputazione di abile centrista che potrebbe conquistarle le simpatie di quella componente moderata dell’elettorato preoccupata della non giovane età di Biden e dell’inesperienza di Buttigieg. In ogni caso, Klobuchar ha finora speso molto meno di quanto ha raccolto, il che dovrebbe renderla molto competitiva in questa prima tornata elettorale dove, oltretutto, gioca quasi in casa visto che l’Iowa confina a settentrione proprio con il Minnesota. Da notare però che, come nel caso di Biden, per Klobuchar un eventuale sconfitta in tutti e quattro questi stati equivarrebbe alla fine di ogni ambizione presidenziale almeno fino al 2024.

Sommersi e salvati
Fin qui otto degli undici candidati rimasti nel campo democratico. Gli altri quattro sono il senatore del Colorado Michael Bennet, la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard (accusata da Hillary Clinton di essere un “asset russo”) e l’ex governatore del Massachussets Deval Patrick. Nessuno di loro, però, ha grandi possibilità di affermazione: nei sondaggi viaggiano tutti sotto l’1%. Non arrivano invece a misurarsi con caucus e primarie nomi eccellenti che hanno fatto un passo indietro nelle scorse settimane: fra questi, i senatori afroamericani Cory Booker (New Jersey) e Kamala Harris (California), l’ex deputato texano Beto O’Rourke, astro nascente dei democratici appena un anno fa, e l’ex ministro di Obama Julián Castro.