Usa-Iran: si avvicina lo scontro frontale?
Stavamo abituandoci a conflitti per procura nei vari scacchieri del Grande Medio Oriente ed eravamo giunti a considerare con preoccupazione il progressivo ritiro militare americano dalla regione. Ma questa volta Teheran ha alzato il tiro, facendo vittime americane nell’attacco alla base di Kirkuk e soprattutto puntando alla roccaforte diplomatica americana a Baghdad, e Trump ha colto al volo l’occasione per colpire al cuore il sistema-Iran.
Agli albori del nuovo anno, raid americani hanno ucciso Qassem Soleimani, Capo delle Guardie Rivoluzionarie e delle unità di élite Al Quds, un ‘terrorista’ secondo Washington, un’indiscussa autorità ammirata e temuta secondo i connazionali, stretto collaboratore di Khamenei, stratega della politica espansionistica del Paese e architetto delle vittorie militari di questi anni. I fatti ci suggeriscono tre riflessioni.
Iraq pilastro della strategia iraniana
La prima riguarda l’Iraq. Paese sempre più fragile e diviso, in preda a una crisi politica e a manifestazioni di protesta, Paese in cui Washington ha investito ingenti risorse in termini umani, finanziari, militari, senza riuscire a conquistare ‘la mente e il cuore’ degli iracheni, complice la sventurata politica di smantellamento dello Stato assieme al regime di Saddam Hussein, e aprendo invece la strada ad una crescente influenza del vicino Iran.
L’Iraq è diventato così un pilastro della strategia iraniana, sotto gli occhi degli oltre 6mila americani che vi stazionano e della rete di basi militari nelle vicinanze. Soleimani era a Baghdad, a consolidare il rapporto con i suoi ‘alleati’, ad organizzare le nuove fasi della sua strategia mediorientale, ivi inclusi probabilmente ulteriori attacchi ad obiettivi americani come Trump sta sostenendo. La connivenza dell’establishment locale nell’attacco all’ambasciata statunitense è del resto innegabile.
Il confronto diretto
La seconda considerazione riguarda l’Iran. La strategia iraniana nell’area è nota. Dal sostegno alla Siria degli Assad al costo di un incalcolabile numero di vittime, e oltre ai ribelli Houthi dello Yemen, alla sponsorizzazione degli Hezbollah libanesi, e delle formazioni Kataib e Mpu irachene, fino alla crisi degli Stretti di Hormuz dell’estate, con il colpo inferto agli impianti Aramco, fino alla sequenza ravvicinata di questi giorni. Uno scontro frontale, accompagnato da reciproche veementi dichiarazioni e minacce, di cui l’uccisione di Soleimani ha certamente inaugurato un nuovo capitolo denso di incognite. ‘Vendetta’ è ora la parola d’ordine, mentre tornano nelle piazze i roghi delle bandiere americane e israeliane, e gli slogan ‘morte all’America’. Che soppiantano d’un tratto le manifestazioni popolari per il drastico calo del tenore di vita.
Abbandonata la ‘pazienza strategica’, che ha attraversato gli anni del ritiro unilaterale americano dall’accordo sul nucleare (Jcpoa), tanto più paradossale in quanto Teheran stava contribuendo a demolire l’Isis nel Siraq, del crescendo di sanzioni, della fine delle eccezioni all’embargo petrolifero accordate a qualche Paese (tra cui l’Italia), del mancato Instex e Special Vehicle europeo, Teheran si è imbarcata in un confronto diretto con il ‘Grande Satana’. Probabilmente sulla base di un ragionato calcolo sull’anno elettorale di Trump (‘we don’t want a war…’ ripete), sull’incertezza prevalente in Israele nelle more dell’immunità e del nuovo mandato di Netanyahu, sulle offensive che tengono impegnato Erdogan in Siria e in Libia, sulle divisioni e ambiguità del mondo arabo, e non ultimo sul fiancheggiamento di Mosca che ha condannato l’attacco americano mettendo in guardia sulle tensioni che verranno. E sulle reazioni dell’Europa, che tanto hanno deluso Washington: ‘preoccupazione’, ‘prudenza’, ‘moderazione’, ‘responsabilità’, ‘dialogo’ sono le parole utilizzate nelle capitali e a Bruxelles. Per contro, non a caso Israele, unico interlocutore pre-avvertito dell’attacco, ha espresso apprezzamento (un ‘successo impensabile’, secondo Netanyahu), seguito dall’Arabia Saudita ma con minor enfasi.
La terza considerazione riguarda gli stessi Stati Uniti. Trump ha certamente pensato, alla vigilia della campagna elettorale che inizierà in febbraio, di stornare l’attenzione dal procedimento di impeachment. Ha indubbiamente puntato, pur negandolo, sul progetto di regime change coltivato fin dall’inizio del suo mandato, avvalendosi della formazione Mujahedeen Khalq, l’opposizione foraggiata all’epoca da Saddam e ora ospitata negli Usa. Sono forse riemersi i fantasmi del 1979 a Teheran e del 2012 a Bengasi. Ma una valanga di critiche sta riversandosi su di lui. Non solo da parte dei concorrenti del Partito Democratico (‘dinamite in una polveriera’ – Biden – ‘non ha nemmeno consultato il Congresso’ – Nancy Pelosi -), ma da larga parte di media ed esperti che definiscono la ‘campagna di massima pressione’ clamorosamente fallita, e concordemente prefigurano un potente rischio di escalation del conflitto. Trump, si dice, è caduto in una trappola.
Per tutti, il generale Wesley Clark, veterano delle guerre balcaniche, osserva con amara ironia che Soleimani non era un fuorilegge come Bin Laden o Al Baghdadi, ma l’esponente di punta di uno Stato di 80 milioni di abitanti, che colpirà dove e quando vorrà come ha fatto negli ultimi 40 anni. Nel frattempo, l’ambasciata americana a Baghdad è stata evacuata, e chissà se basteranno gli altri 2.800 soldati in arrivo per proteggerla – ma gli arsenali Usa stanziati nelle vicinanze non mancano – e i cittadini americani sono stati invitati a lasciare in fretta il Paese. Trump deve ora convincere gli elettori che questo è il modo per difendere i cittadini americani.
Il ruolo di Russia, Cina ed Europa
Khamenei dovrà reagire, se non altro per il clima incandescente che pervade la popolazione. Ma anche per non rinunciare al progetto di continuità territoriale tra Golfo e Mediterraneo che ha ispirato la politica iraniana di questi anni. Un progetto che rappresenta una sfida aperta a Washington così come a Tel Aviv e Riad, e al quale Obama aveva cercato di porre rimedio con la politica di ‘contenimento’ centrata sul Jcpoa. All’interno del Paese, lo spazio per i moderati si è drasticamente ridimensionato. All’esterno, Teheran può contare sul fiancheggiamento di Russia e Cina, con cui da ultimo sono state organizzate inedite esercitazioni militari congiunte negli Stretti di Hormuz. Anche se resta da vedere fino a che punto Mosca e Pechino vorranno confrontare Washington con cui già esistono relazioni problematiche.
Ma è chiaro che si è aperta una partita cruciale, presumibilmente dai tempi lunghi, di cui i primi a beneficiare potrebbero essere Al-Qaida e Isis, e in cui anche la corsa al nucleare entrerebbe in campo: se l’Iran consegue il nucleare uscendo dal Jcpoa, altri nell’area lo rivendicheranno come un diritto. Rimane l’incognita di come e dove essa verrà giocata, se di nuovo negli Stretti di Hormuz, o nei Paesi sintonizzati sugli Stati Uniti, o in territorio americano ivi incluse le presenze Usa all’estero. Con il corredo di rappresaglie cibernetiche.
Per l’Europa e l’Italia in particolare si ripropone in tutta evidenza un problema di sicurezza, proteggere la presenza militare in Iraq, Libano, Afghanistan, affrontare nuove migrazioni che il caos potrebbe generare, ed eventuali attacchi terroristici, senza contare l’impatto sull’economia a partire dal prezzo degli idrocarburi. Vi è davvero da auspicare massima prudenza e responsabilità di tutti gli attori. E un forte, coeso, sforzo diplomatico da parte degli europei per promuovere una de-escalation, raccordare i grandi protagonisti, reperire una piattaforma di mediazione, e trarre dall’impaccio il grande imprescindibile alleato.