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Visegrád

Ungheria: ancora troppi migranti sulla rotta balcanica

13 Gen 2020 - Alberto Simoni - Alberto Simoni

L’Ungheria ha raddoppiato il numero di soldati che presidiano il confine con Serbia, Romania e Croazia. Il ministro dell’Interno ungherese, Sàndor Pintér, ha giustificato il rafforzamento dei presidi ai posti di frontiera con l’aumento del numero di immigrati lungo la rotta balcanica. La massima concentrazione di soldati è al confine con la Serbia, frontiera ungherese e della stessa Unione europea. A Roszke i militari sono stati aumentati di oltre 500 unità.

La proiezione militare di Budapest nella gestione della questione migranti prevede collaborazioni con Croazia, Serbia e Macedonia del Nord. Soldati del 40esimo contingente sono stati dispiegati in Serbia vicino a Horgos (l’altro lato della frontiera di Roszke) con compiti di “addestramento” al pattugliamento dei confini. Una ventina di soldati sono stati destinati invece alla partnership con il governo di Skopje.

Il premier conservator-nazionalista Viktor Orbán, incontrando la stampa straniera alla fine delle feste, ha sottolineato come la situazione dei flussi migratori rischi di tornare quella del 2015. Allora la grande quantità di persone in fuga dalla Siria e dalla piana di Ninive in Iraq e dalle zone curde, si diresse verso Nord e la Ue dopo aver varcato il poroso confine siro-turco e poi quello greco, lungo la dorsale balcanica. Le immagini della stazione centrale di Budapest (agosto 2015) invasa da migliaia di immigrati, donne, bambini, padri di famiglia in fuga dal dramma siriano, generarono emozione in tutta Europa. Da lì a pochi giorni l’ormai celeberrimo “Wir schaffen Das” di Angela Merkel, quel “possiamo farcela” con la quale la cancelliera apri le porte della Germania ai profughi, segnò una svolta determinante e una spaccatura nelle politiche migratorie nella Ue.

Orbán accelerò la costruzione di una barriera di filo spinato ai confini meridionali. Deliberata nel giugno del 2015, in luglio la costruzione subì un’accelerazione. In settembre il Paese – fronte Serbia – era virtualmente blindato. Le polemiche e le accuse di aver messo in piedi una macchina disumana di dissuasione sono all’ordine del giorno da anni. Ma l’approccio di Orbán e del suo governo conservatore non è mutato. Anzi. Il ministro degli Esteri Peter Szijjarto a inizio anno ha ribadito che “il contrasto dell’immigrazione deve essere il tema numero uno dell’agenda europea”.

I numeri attuali sono lontani da quelli di cinque estati fa. Ma il trend testimonia che la rotta balcanica ha ripreso vigore: fino alla prima settimana di dicembre erano stati sventati 13mila tentativi di attraversamento illegale della frontiera serbo-ungherese, nel dicembre del 2018 erano stati 6,500. Significa 37 al giorno nel 2019 contro i 17 del 2018. Nei primi giorni del 2020 sono già stati registrati 900 tentativi di attraversamento della frontiera meridionale, numeri che dovessero mantenersi tali avrebbero termini di paragone proprio con l’estate del 2015. A questo si aggrappa Orbán per rilanciare “l’emergenza immigrazione”.

Fra l’altro, l’ufficio nazionale per l’immigrazione turco nel suo report annuale ha riferito che nel 2019 sono entrati nel Paese 450mila illegali, un aumento del 70% rispetto al 2018. In Grecia invece gli ingressi sono stati del 180% in più fra il 2018 e il 2019. Negli ultimi sei mesi del 2019 45mila profughi sono arrivati in Grecia, le stime dell’Unhcr prevedono che nel 2020 gli arrivi toccheranno quota 100mila, cifre che hanno fatto dire al governo ellenico che la crisi è “potenzialmente superiore a quella del 2015”.

Ecco perché secondo Orbán tutto questo avrà ripercussioni sulla rotta balcanica mettendo sotto stress i confini ungheresi. Orbán non intende abbassare la guardia. Per questo Budapest ha riattivato gli accordi in essere “sulla protezione dei confini” con gli alleati del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) – da sempre contrari a qualsiasi redistribuzione e alleati nel serrare le frontiere esterne – nonché agito con Macedonia del Nord e Serbia per blindare confini e avviare i rimpatri dei non aventi diritto di asilo.

Il monito di Orbán non può essere sottovalutato. Liquidarlo come boutade elettorale o come bieco antieuropeismo è fuorviante visto che l’Ungheria non andrà a elezioni (di nessun livello) fino al 2022. La linea dure del governo sull’immigrazione ha presa sulla popolazione: un sondaggio del “Nezopont Intezet” a fine 2018 ha rilevato che oltre l’80% degli intervistati era favorevole alla barriera di sicurezza. Percentuale scesa lo scorso anno a poco più del 70%.

Con l’attenzione rivolta alla crisi libica, il rischio per l’Europa è minimizzare le vicende balcaniche. Ma il vecchio “Wir schaffen das” stavolta non funzionerebbe.