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Il 2020 e la crisi del multilateralismo

Un anno difficile per l’Europa sulla scena internazionale

13 Gen 2020 - Ferdinando Nelli Feroci - Ferdinando Nelli Feroci

Il nuovo anno non poteva iniziare sotto auspici peggiori per l’Europa. L’escalation della conflittualità nei rapporti Usa-Iran, che ha fatto seguito all’assassinio del generale Solemaini, e l’inasprirsi della crisi in Libia, con l’offensiva in corso da parte del Generale Haftar e l’invio di truppe turche a difesa del governo di Tripoli, hanno sottolineato la sostanziale marginalità dell’Europa, confermando tutte le debolezze e insufficienze della proiezione internazionale dell’Unione europea. Le cause sono note: assenza di una percezione condivisa della minaccia, inadeguatezza di meccanismi decisionali che si basano ancora sull’unanimità, assenza di una credibile dimensione di difesa, ma soprattutto mancanza di una leadership riconosciuta e autorevole. Le prescrizioni per uscire da questa situazione di impotenza sono invece ancora vaghe, ma soprattutto non condivise. 

È vero che sull’Iran, dopo la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare e di forzare sulla strategia della “maximum pressure”, i margini di manovra dell’Europa si erano ridotti drammaticamente. Malgrado i tentativi di salvaguardare il Jpcoa, e mantenere aperto un canale di dialogo con Teheran, la Ue aveva dovuto subire l’impatto di sanzioni americane con efficacia extraterritoriale, ed era rimasta sostanzialmente ai margini nel confronto frontale con l’Iran, perseguito con determinazione dall’Amministrazione USA, senza riuscire a svolgere un ruolo credibile di mediazione. 

Ora però con l’uccisione di Solemaini (su cui non risulta che gli alleati europei siano stati neppure preventivamente informati) quei già modesti margini di manovra si sono ulteriormente ristretti. E l’Europa rischia di dover assistere impotente alla spirale di rappresaglie fra Usa e Iran augurandosi che a Teheran si sia più razionali (e meno emotivi) che a Washington, e augurandosi soprattutto che non vengano colpiti obiettivi europei. Nella migliore delle ipotesi potrà cercare di salvare il salvabile dell’accordo sul nucleare, in attesa che maturino le condizioni per una (per ora improbabile) ripresa del dialogo fra Washington e Teheran.   

Ma se sulle vicende iraniane era ed è oggettivamente difficile ipotizzare, in presenza di un così clamoroso disallineamento fra europei e americani, un ruolo proattivo dell’Europa, era ed è molto più legittimo attendersi un sussulto di protagonismo europeo sulla Libia. È vero che gli sviluppi sul terreno sono in rapida e drammatica evoluzione; è vero che la Turchia e in parte la Russia sono impegnate direttamente sul terreno e in contrapposizione fra loro; è vero una ipotetica soluzione politica e negoziata della crisi appare sempre più remota.  

Ma la Ue non può limitarsi ad assistere agli sviluppi della guerra civile in atto senza assumere iniziative, come se la situazione della Libia non la riguardasse direttamente. Non può lasciare a Russia e Turchia il monopolio della soluzione della crisi. Varie opzioni sono sulla carta ancora praticabili, anche se tutte presuppongono un minimo di unità di intenti e il coinvolgimento di Russia Turchia: dal rilancio della conferenza a Berlino, alla creazione di un gruppo di contatto allargato ai vari stakeholders regionali, da misure di enforcement dell’embargo sulle armi dirette in Libia, fino alla ipotesi di una “no fly zone” e magari all’impegno a dispiegare una presenza militare europea, una volta raggiunto un accordo fra le parti in causa, e in funzione di garanzia di un tale accordo. L’essenziale per la Ue è non replicare la latitanza manifestata in Siria. La Libia è troppo vicina e importante perché la Ue si possa permettere di affidarla solo a Russia e Turchia. 

Nell’immediato Iran e Libia sono di tutta evidenza le due sfide maggiori su cui testare la credibilità della proiezione internazionale della Ue. In una ottica di medio periodo però l’Europa dovrà confrontarsi con molte altre sfide. La prima, e forse la più complessa, è quella che riguarda le relazioni con i nostri maggiori partners, protagonisti sulla scena internazionale.  

Con gli USA il rapporto, ancorché imprescindibile, sarà probabilmente ancora più complicato che negli anni scorsi, perché il Presidente in carica, già noto per la sua imprevedibilità e per le sua allergia per le alleanze, per le istituzioni internazionali, e per le regole del gioco, sarà impegnato in una campagna elettorale, con il risultato che ancora più che nel passato, le sue scelte di politica estera risponderanno a esigenze e logiche da campagna elettorale.  

La Ue dovrà  poi continuare a gestire un rapporto complicato e divisivo anche con la Russia di Putin, una democrazia autocratica, economicamente debole ma dotata di un efficace apparato militare, che le garantisce un ruolo di primo piano sulla scena internazionale; con molti conti da regolare con la UE, a partire dalla tuttora irrisolta crisi nelle provincie orientali dell’Ucraina, che però resta un interlocutore irrinunciabile per la soluzione di crisi regionali e sfide globalioltre che un importante partner economico ed energetico.  

Ed infine la Ue dovrà definire una politica coerente e condivisa nei confronti della Cina che si appresta a diventare la prima potenza economica del globo; che si presenta come campione del globalismo e del multilateralismo, ma il cui potenziale economico e tecnologico sembra sempre più al servizio di una strategia di penetrazione politico-strategica. Una potenza in ascesa, tentata dalla politica del divide et impera con l’Europa, con la quale la Ue avrebbe invece tutto l’interesse a definire una strategia comune per gestire nel modo più efficace rischi e opportunità di un rapporto complesso ma inevitabile. 

Ma più in generale la Ue dovrà confrontarsi con un quadro internazionale in transizione senza più certezzein equilibrio instabile, privo di potenze egemoni riconosciute, e con numerosi fattori di instabilità, che minacciano la nostra sicurezza, e le nostre economie. Con vecchie regole del gioco contestate, senza che ne emergano di nuove; con istituzioni internazionali indebolite e contestate; in una parola con la crisi del multilateralismo. 

Dovrà negoziare un nuovo assetto delle relazioni con Londra, che consenta di minimizzare gli effetti negativi della Brexit e di tenere saldamente agganciato il Regno Unito al resto dell’Europa. Dovrà affrontare la sfida di conciliare una agenda già in cantiere di negoziati per nuovi accordi commerciali, e di contrasto del protezionismo, con la tutela dei perdenti della globalizzazione. Dovrà mantenere la leadership nel contrasto del cambiamento climatico, coinvolgendo però anche le grandi potenze economiche principali responsabili delle emissioni di biossido di carbonio e di gas a effetto serra.  

Dovrà proseguire sulla strada già avviata della transizione energetica e della protezione dell’ambiente senza compromettere la competitività dei propri sistemi produttivi. Dovrà essere capace di definire una politica comune nei confronti delle migrazioni che sappia coniugare controllo dei flussi con efficaci politiche di integrazione, e un autentico rapporto di partenariato con l’Africa. Dovrà contribuire a contrastare efficacemente i rischi di proliferazione nucleare e il terrorismo internazionale in un quadro di cooperazione internazionale.  

Sulle risposte a queste sfide si misurerà la capacità della Ue di recuperare uno status di protagonista oggi rimesso in discussione dalla modesta performance nelle due maggiori crisi in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Anche se oggi il pessimismo sulle capacità di protagonismo dell’Europa è giustificato, in realtà l’alternativa di un ritorno alla dimensione degli stati-nazione ci condannerebbe ancora di più alla irrilevanza.