Trump e il nodo irrisolto di Gerusalemme
Come sempre, tutto gira intorno al destino di Gerusalemme. È così da almeno un paio di millenni e anche Donald Trump deve fare i conti con quella vecchia legge che da quelle parti conoscono molto bene: se non sciogli il nodo di Gerusalemme non potrai mai trovare il bandolo dell’intricata matassa mediorientale.
Il secco no palestinese al piano di pace presentato in pompa magna dal presidente degli Stati Uniti con a fianco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (e anche questo non è piaciuto molto ad Abu Mazen) dipende fondamentalmente da una frase pronunciata da The Donald: “Gerusalemme resta la capitale indivisa di Israele“.
Su tutto il resto si può discutere ma il punto alla fine, come sempre, è tutto lì. In effetti, il nuovo piano di pace proposto dagli Stati Uniti concede qualcosa in più ai palestinesi rispetto alle ultime esternazioni di Trump. C’è stata, ad esempio, la mossa a sorpresa della soluzione dei due Stati, che Trump non aveva preso in considerazioni negli ultimi anni, contraddicendo una solida e tradizionale posizione delle amministrazioni americane negli ultimi decenni. Si tratta di un passo avanti notevole, necessario ma non sufficiente.
Il presidente americano ha in effetti spiazzato tutti rispolverando uno scenario – la nascita della Palestina – che per la Casa Bianca sembrava definitivamente accantonato, e che invece ora riavvicina la visione di Washington a quella degli alleati europei. Trump ha usato frasi altisonanti come “occasione storica”, “grande passo verso la pace” o di “ultima possibilità” per il Medio oriente, ma non è sembrato avere lo spessore e lo spirito che altri presidenti, come Bill Clinton ad esempio, hanno mostrato nel provare a trovare un punto di compromesso concreto e possibile fra israeliani e palestinesi.
A Trump va riconosciuto di aver fatto notevoli sforzi. Il presidente americano, ad esempio, ha ribadito l’offerta di 50 miliardi di dollari di investimenti per i palestinesi ed ha parlato di quattro anni per negoziare, un arco di tempo durante il quale verrebbero congelati gli insediamenti israeliani. Questo a patto che i palestinesi riconoscano Israele come “Stato ebraico” e accettino che il loro Stato sia smilitarizzato.
Ma sono apparse chiare le ambiguità e le contraddizioni nelle parole di Trump, soprattutto, appunto su Gerusalemme. Il presidente americano ha evocato infatti la possibilità di Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato di Palestina, impegnandosi ad aprire un’ambasciata Usa. Si tratta di un fatto nuovo e rilevante. Ma, contemporaneamente, ha ribadito che “Gerusalemme resta e resterà per sempre la capitale indivisa di Israele”.
Chiunque abbia messo piede nella città ritenuta santa dalle tre religioni monoteiste sa bene come in un arco di poche centinaia di metri convivano monumenti, luoghi e simboli centrali per gli ebrei e per i musulmani, oltre che per i cristiani.
Quindi, di cosa parla Trump quando ha indica in Gerusalemme Est la possibile capitale di un possibile futuro Stato palestinese? La “capitale sovrana dello Stato di Palestina” sorgerà, secondo il piano, nelle aree della parte est di Gerusalemme che si trovano, a nord e a est, oltre l’esistente barriera di separazione tra la parte israeliana e quella palestinese. In particolare, il piano indica la futura zona della capitale palestinese in aree come Kafr Aqab, la parte est di Shuafat o Abu Dis. “Queste – si sottolinea nel piano – potranno essere chiamate Al Quds (come i palestinesi indicano Gerusalemme) o con il nome che sarà scelto dallo Stato palestinese”.
Insomma, l’attuale barriera che già divide i quartieri arabi di Gerusalemme dal resto di quelli della città “deve restare in piedi”. E “deve servire come confine tra le capitali delle due parti”. Per quanto riguarda poi il cosiddetto ‘Miglio Sacro‘ – che contiene il Muro del Pianto, la Spianata delle Moschee e il Santo Sepolcro, tutti nella parte est della città sotto controllo israeliano – il piano prevede che sia “lo Stato ebraico a dover salvaguardare i Luoghi Santi di tutti”, mantenendo così “lo status quo”.
È abbastanza chiaro il motivo del secco no di Abu Mazen. Scontati invece i no di Hamas e Iran. Non accetterebbero probabilmente nessun tipo di piano di pace targato a stelle e strisce. In sostanza, Trump ha provato ad avvicinarsi ai palestinesi, ma ancora non abbastanza. Resta ancora molta strada da percorrere. E passa da Gerusalemme.