Subiamo sempre l’assenza di una ‘Grand Strategy’
L’argomento ‘missioni internazionali‘ ha trovato un discreto spazio sui media anche grazie alla panoramica illustrata alle commissioni Difesa del Parlamento dal ministro Lorenzo Guerini. Essendo l’argomento indigesto a molti, è piuttosto raro che questo interesse si manifesti. Il Parlamento generalmente se ne occupa, a volte anche con una certa isteresi, quando si avvicina il momento del rinnovo del cosiddetto ‘decreto missioni‘. Con gli anni, c’è stata una forte frammentazione delle attività, che oggi riguardano 34 missioni in 25 Paesi e circa 5.500 militari. Sono tutte ancora necessarie, o si può pensare ad una rimodulazione? “Lo scenario è quello di una situazione in forte evoluzione”. Così si è espresso il ministro di fronte alle commissioni.
Strategia cercasi
Nessuno pensa – e certamente non il ministro Guerini – ad abolire o ridurre le missioni per motivi finanziari o, peggio, per impulso ideologico. Ma, dopo tanti anni, è venuto il momento di razionalizzare, evitando – magari solo per pigrizia, difficoltà di processo o quieto vivere – effetti di accumulo. In un Paese normale, per farlo basterebbe seguire il filo logico della ‘strategia globale’ (quella che gli americani chiamano Grand Strategy), collegandone un capo a quello che anche loro chiamano ‘interesse nazionale’.
Una volta ci insegnavano che le Forze armate sono “fattore di potenza e strumento di politica della nazione”. È sufficiente riprendere in mano il filo logico di cui sopra, verificare che il compito e lo scopo della missione internazionale in esame (regole di ingaggio) rispondano in maniera adeguata alla nostra strategia globale, alle nostre esigenze di difesa e al nostro interesse nazionale e si procede all’approvazione. Magari con qualche ritocco personalizzato (detto caveat) delle regole stabilite dall’organizzazione internazionale cui la missione fa capo.
Sembrerebbe semplice, ma non lo è. Noi non abbiamo, come gli Stati Uniti, una guida dal titolo di Quadrennial Defense Review, o una rivista bimestrale che si chiami The National Interest o un documento che si studia alla National Defense University (il nostro Casd) dal titolo The Grand Strategy of the United States. Se così fosse, oggi qualcuno ci avrebbe già etichettato come biechi populisti o, peggio, pericolosi sovranisti. Infatti, il sofferto Libro Bianco della Difesa, che questi concetti già li conteneva tutti, dopo essere cresciuto tra gli stenti, è stato prontamente accantonato. Oggi, addirittura si disquisisce se l’interesse nazionale sia davvero ancora lecito, visto che facciamo parte di organizzazioni internazionali istituite per operare nell’interesse comune.
Presenza sì, coinvolgimento no
Il problema dell’assenza di una vera e propria strategia lo abbiamo sempre subito. Nel 1990, dopo l’aggressione di Saddam Hussein contro il Kuwait, l’Italia si associava ad altri 9 Paesi europei per adottare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu n. 660 (condanna, intimazione di ritiro, ecc.). È stato subito evidente che si era voluto fare un bel gesto a livello internazionale, del quale, tuttavia, ci saremmo pentiti ben presto. Il governo ha subito inviato nel Golfo le navi, meno impegnative degli aerei perché ‘fanno presenza’ senza dover necessariamente sparare, e un gruppo di cacciabombardieri Tornado, con modalità operative che prevedevano la copertura aerea della flotta.
Come è stato subito chiaro per gli osservatori esterni, impiegare in difesa aerea velivoli fatti per sganciare bombe è piuttosto inusuale. Con evidenza, rispunta così il vecchio giochino dell”apparire’ e dell”essere’. Ovvero: presenza sì, coinvolgimento no. Facile da dirsi a Roma, più difficile farlo digerire a Riad, al comando della Coalizione. Ma le apparenze, cugine delle bugie, hanno le gambe corte e la risoluzione n. 687, con la quale le Nazioni Unite intimavano a Saddam di ritirarsi entro il 15 gennaio 1991, rullando tamburi di guerra, faceva sobbalzare tutta Roma. Il sorvolo dell’area delle flotte ci veniva subito vietato: ormai, davamo fastidio.
Vuoto culturale o difetto di sistema
Quando ormai mancavano non più di tre settimane alla scadenza, con grande cortesia il comandante della coalizione, in riunione plenaria, così si indirizzava al nostro rappresentante: “…Noi siamo amici. Ma, per cortesia, spiega ai tuoi politici che tra qualche giorno qui si comincerà a sparare. Sai, in guerra ci sono gli amici e i nemici, e per loro c’è tutto il posto che vuoi. Per quelli così e così, però, il posto non c’è e se ne devono andare…”.
Poi a tutto si rimedia, anche se le figuracce rimangono: l’autorizzazione parlamentare a partecipare è arrivata solo il giorno dopo che la campagna aveva preso l’avvio. Ma è arrivata. Altre azioni maldestre, con il rischio di appannare il valore degli equipaggi e degli specialisti, si sono verificate anche nelle settimane successive, ma la narrazione diverrebbe lunga e poco caritatevole.
Alle radici di tutto ciò c’erano una totale mancanza di strategia e una percepibile dose di furbizia. Successivamente, si è aggiunta anche una costante carenza nello ‘sfruttamento’ del successo ai fini dell’interesse nazionale. Siccome queste manchevolezze, dopo trent’anni, non sembrano del tutto risolte, i casi sono due: o si tratta di vuoto culturale, oppure il difetto è di sistema.
Attenzione, però, perché se queste due cause si sommano, il collasso è dietro l’uscio.
Questo articolo è il terzo di una serie dedicata a una riflessione sul ruolo dell’Italia nelle missioni militari internazionali, aperta da Vincenzo Camporini e Michele Nones.