IAI
Riforma istituzionale dell’Unione

Prospettive a tinte fosche per la Conferenza sul futuro dell’Ue

13 Gen 2020 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Solitamente l’inizio di un anno è accompagnato da buoni propositi. È una regola che vale per gli individui, ma anche per governi e istituzioni. Se poi, come è il caso della Commissione europea, si tratta dell’avvio della nuova legislatura i buoni propositi si identificano con il programma per i prossimi cinque anni. Nulla di strano quindi che il “libro dei sogni” che ci arriva da Bruxelles sia estremamente ambizioso e con lo sguardo rivolto al futuro. Ed in effetti nel piano confezionato dalla presidente Ursula von der Leyen si trova davvero di tutto, da un più autorevole ruolo dell’Unione nei grandi affari del mondo (un’Unione geopolitica) alla volontà di diventare modello di riferimento verso emissioni zero di gas serra entro il 2050.

In mezzo, poi, una lunga lista di altre azioni fra cui: politiche dell’immigrazioni comuni, salvaguardia dei diritti umani e valori europei, lotta alle disuguaglianze, digitalizzazione e difesa comune. Insomma, ci sarebbe da essere soddisfatti nel constatare che gran parte delle tematiche che tanto preoccupano l’opinione pubblica europea siano state finalmente recepite a Bruxelles. Per di più, rendendosi conto che simili promesse nel passato erano state in larga parte disattese, von der Leyen ha anche proposto come motore di questo programma una Conferenza sul futuro dell’Europa. L’obiettivo sarebbe quello di identificare non solo le priorità politiche, ma anche i meccanismi istituzionali (cioè la capacità di governo) necessari per renderle credibili ed efficaci. A darle manforte è subito intervenuta la coppia di sempre, Francia e Germania, che ha stilato due sintetiche paginette per indicare modalità e tempistica della futura Conferenza.

Il precedente del 2002
Sembra in qualche modo di essere ritornati indietro al 2002, quando i quindici membri dell’Ue di allora diedero vita ad una Convenzione per la Costituzione europea con il compito di scrivere un nuovo trattato. La storia è ben nota: dopo avere firmato solennemente il Trattato costituzionale a Roma il 29 ottobre 2004, ci pensarono i due referendum di Francia e Olanda l’anno successivo a respingere clamorosamente il lavoro di riscrivere le basi del nostro vivere assieme in Europa. Eppure a quei tempi l’Unione sembrava sulla cresta dell’onda. Erano ancora gli anni della grande crescita economica (la crisi sarebbe arrivata nel 2008), da poco era stata avviata la temeraria avventura dell’euro, nel 2004 era arrivato a compimento il più grande allargamento della storia dell’Unione con ben dieci Paesi – la maggioranza dell’Est – ad aggiungersi al nucleo principale. Tuttavia, le opinioni pubbliche, perfino quelle di due Paesi fondatori come Francia e Paesi Bassi, si sono alla fine dimostrate riluttanti di fronte al grande balzo avanti proposto dalla Convenzione guidata dall’ex capo di Stato francese Valéry Giscard d’Estaing.

Oggi le condizioni sono ben peggiori di allora. L’Unione è alle prese con la prima uscita dal club di un membro non di poco peso quale il Regno Unito, le cui future relazioni commerciali con l’Ue non escludono del tutto lo scenario drammatico di una hard Brexit. La crisi economica non è ancora del tutto superata in alcuni Paesi del sud Europa, come il nostro. I governi dell’Est Europa, particolarmente quelli del gruppo di Visegrád, tirano il freno a mano su quasi tutte le nuove politiche: la Polonia sugli obiettivi del 2050 di un’Europa verde, l’Ungheria su qualsiasi tentativo di varare una politica dell’immigrazione dal volto umano, gli altri interessati a mantenere gli stessi vantaggiosi fondi comunitari del passato e quindi contrari a spostarli verso nuove politiche. Perché è abbastanza evidente che senza un rinnovato e più consistente bilancio 2021-27, primo reale impegno della Commissione, non si andrà molto lontani. Sarà in effetti questo il vero “test case” degli orientamenti che i governi dell’Ue vorranno dare alle priorità e politiche comuni. Che questa battaglia finanziaria avvenga in contemporanea con lo svolgimento della prima fase della Conferenza non è particolarmente tranquillizzante. Sarà infatti difficile, nel prevedibile clima di diffidenze e priorità contrastanti fra i rimanenti 27 Stati membri dell’Unione, pensare che si affrontino non solo le politiche fondamentali per il nostro futuro, ma anche e soprattutto che si varino le necessarie riforme istituzionali, le sole che possono disegnare un’“Europa più unita e sovrana” come auspicato da Macron e Merkel.

La questione del voto a maggioranza qualificata
Si ritornerà di nuovo, come nella Convenzione del 2002, a discutere della necessità di introdurre per tutte le politiche e in tutte le istituzioni il voto a maggioranza qualificata. Operazione fallita allora e non riproposta negli stessi termini nel Trattato di Lisbona. Anzi, la crisi finanziaria del 2008 non ha fatto altro che accrescere a dismisura il ruolo del Consiglio europeo, dove l’escamotage dell’astensione costruttiva è stata in breve travolta dalla “regola” dell’unanimità, che si è andata estendendo a macchia d’olio dalle decisioni strategiche fino ai dettagli più secondari.
Neppure nella politica estera, per la quale il Trattato di Lisbona prevedeva il voto a maggioranza qualificata sulle azioni e decisioni comuni dell’Ue, tale riforma è mai entrata realmente in funzione: in effetti l’articolo 31 del Trattato nel comma terzo introduceva il diritto di veto da parte di un qualsiasi membro, con l’ovvia conseguenza che si ricerca il consenso di tutti e quindi si agisce male e in ritardo (si pensi all’inesistente “gestione” nel caso libico, tanto per citare una questione recente). Come si possa in queste condizioni parlare di un’Unione dalle ambizioni geopolitiche è davvero un mistero.

L’importanza di cambiare le regole del gioco
È quindi evidente che o si modificano le regole del gioco o non si va da nessuna parte. La Conferenza sul futuro dell’Europa rischia quindi di arenarsi ancora prima di partire, a meno che alcuni Paesi volonterosi non decidano di avanzare da soli, magari lasciando le porte aperte a quelli più riluttanti e concedere a loro il tempo, se lo vorranno, di riagganciare il gruppo di testa. Ma per arrivare ad una decisione del genere è necessario che qualcuno prenda la guida di un’operazione per nulla indolore e per di più rischiosissima. In teoria dovrebbero essere Parigi e Berlino, ma la debolezza politica interna di Macron e Merkel rendono meno credibile del passato questo scenario. Altri volonterosi non si vedono nei paraggi e neppure il Parlamento europeo, diviso e frammentato, potrà dare impulso da solo alla Conferenza. Eppure non vi è alternativa. Da troppi anni l’Ue è ferma, paralizzata da un sistema di “governance” vecchio e inefficace. C’è da sperare che alla fine prevalga la forza della sopravvivenza, o della resilienza, come si usa dire da qualche anno a questa parte.