Pence da Bergoglio. La Cina è vicina
In molti hanno visto nella (mezza) escalation iracheno-iraniana di inizio anno una certa volontà del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di far sfoggio della propria capacità militare e d’intelligence a meri fini elettorali. In pochi, invece, hanno avuto la stessa lettura della visita in Vaticano del vice di The Donald, Mike Pence. Di origini irlandesi e di religione cattolica, il veep di Trump si è incontrato con papa Francesco nel contesto del viaggio italiano che lo ha portato anche a palazzo Chigi e al Quirinale, rispettivamente da Giuseppe Conte e Sergio Mattarella.
Non di sole elezioni vive la politica, è vero. Ma nell’anno decisivo per il Trump-bis, molto spesso, la vita pubblica del presidente – e dei suoi collaboratori – ruota intorno all’Election Day. E se tra gli argomenti affrontati da Pence e da Bergoglio nell’incontro vaticano c’è la Cina e il rinnovato rapporto tra Pechino e la Chiesa cattolica, i piani di analisi si intrecciano. Tra interno ed esterno, tra la necessità di (ri)conquistare il voto cattolico in patria e il tentativo di riportare alla base una Chiesa ondivaga e senza punti di riferimento fissi e prefissati, la visita di Pence non è un semplice omaggio al successore di Pietro, quanto una tappa strategica di un percorso che dura ormai da qualche anno.
Nel 2017 in Polonia, cuore pulsante del cattolicesimo mitteleuropeo, in una delle prime uscite come presidente degli Stati Uniti, Donald Trump descrisse quello che era – e che continua essere – il principale elemento della propria visione del mondo: la difesa della civiltà occidentale. Una specie di retaggio delle culture wars statunitensi, che il tycoon newyorchese aveva già manifestato quando, nella sua manichea suddivisione del pianeta, aveva parlato di “cattivi” (bad) e “molto cattivi” (very bad) contro i quali gli Stati Uniti avrebbero dovuto confrontarsi. Una lotta tra bene e male che, indirettamente, ha riportato in auge la narrativa di George Bush junior incentrata sul cosiddetto “asse del male”. Non è certo un mistero che l’amministrazione Trump, tra i suoi nemici giurati, abbia scelto la Cina.
Un contesto, questo, dove la Chiesa di papa Francesco non è a proprio agio. La dimensione esclusivamente euroatlantica del cattolicesimo, all’interno della quale si muoveva in maniera più spontanea il pontificato di Benedetto XVI, diventa cattività per la missione gesuita di Bergoglio che proprio nella Cina trova il suo sbocco storico e ultimo. La Chiesa cattolica non è e non può essere solo camera dell’eco dei proclami occidentali, ma soggetto fluido che si muove liberamente e senza argini statuali.
Francesco, nella sua fitta attività diplomatica, si è fatto pioniere della de-occidentalizzazione del cattolicesimo. Del resto, quest’ultima è stata la pietra angolare su cui si è cominciato a costruire il rapporto tra Cina e Vaticano, inaugurato con l’Accordo provvisorio per la nomina dei vescovi. Un passo avanti che ha spinto Pence a domandare al Papa i motivi di un tale riavvicinamento e che negli Stati Uniti più profondi ha confermato lo scollamento palpabile tra il cattolicesimo tout court e il cristianesimo made in Usa.
Il messaggio politico e sociale del pontificato bergogliano è punto di rottura non solo a livello internazionale, ma anche all’interno dei confini statunitensi. A dimostrarlo bastino le polemiche che hanno accompagnato la nomina del nuovo arcivescovo di Philadelphia, Nelson Perez. Il prelato – che sarà il primo ispanico a guidare la diocesi della città della Pennsylvania – sostituisce monsignor Charles Chaput, che ha abdicato al proprio incarico avendo raggiunto i 75 anni d’età.
Una rinuncia che poteva essere rimandata – come spesso è prassi nelle sede episcopali -, ma che Bergoglio ha invece subito accettato. Questo perché Chaput è considerato uno dei principali esponenti del conservatorismo cattolico all’interno della Conferenza episcopale statunitense (la United States Conference of Catholic Bishops). Dalla solidarietà dimostrata a Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico negli Usa che attaccò ferocemente papa Francesco per il suo pontificato, fino alla critica per l’uso della sigla Lgbt nell’Instrumentum Laboris per il Sinodo dei giovani dell’ottobre di due anni fa. Senza dimenticare il sostegno al movimento pro-life che si oppone alla pratica dell’aborto e alla cui manifestazione, la March for Life, ha presenziato proprio Donald Trump.
Segnali, come dicevamo, di una forte contraddizione tutta interna al mondo cattolico statunitense. Il problema americano – o, come qualcuno lo ha definito, il “neo-americanismo”, con riferimento alla eresia contestata da papa Leone XIII nel 1899 – mette alla luce che tra il cattolicesimo degli Stati Uniti e quello globale vi sono visioni contrapposte e progetti geopolitici incompatibili. Da una parte una specie di incarnazione locale e nazionalista della fede, eredità dell’eccezionalismo americano descritto per la prima volta da Alexis de Tocqueville; dall’altra un cattolicesimo transnazionalista, slegato dalle forme istituzionali e storiche e che si vuol liberare dai lacci e lacciuoli del costantinismo. Uno scontro che, anche in vista delle presidenziali di Usa 2020, tornerà ad avere il proprio peso specifico in campagna elettorale. Del resto, solo in quattro occasioni il voto cattolico ha premiato un candidato repubblicano. E The Donald è tra questi.