IAI
Per far fronte alle sfide globali

Il re è nudo: costruire un’autonomia europea

13 Gen 2020 - Nathalie Tocci - Nathalie Tocci

Con l’acuirsi della crisi in Libia e il rischio di un’escalation in Medio oriente a seguito dell’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani per mano statunitense, l’Europa è stata ripetutamente definita assente, debole, marginale. Ma l’Europa non è più debole oggi in Medio oriente di quanto lo fosse dieci, venti o trent’anni fa; la sua debolezza, invariata, è semplicemente esposta dal declino dell’influenza americana nella regione.

Ursula von der Leyen ha definito quella da lei presieduta una Commissione geopolitica, mentre l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell ha sottolineato quanto l’Europa debba imparare il linguaggio del potere. Ancor più nettamente, il presidente francese Emmanuel Macron ha preannunciato la fine dell’Unione a meno che questa non inizi a concepirsi come potenza globale.

L’intuizione dei leader europei è sacrosanta. Nel XXI secolo, la ratio del progetto europeo è squisitamente globale. L’Unione europea non esiste soltanto per assicurare la pace in un continente che per secoli è stato devastato da guerre e violenze, né solo per consolidare una crescita economica attraverso le libertà del mercato unico.

Oggi l’Europa serve anche, e soprattutto, per far fronte alle sfide globali del nostro secolo. Perché nel XXI secolo peso e dimensione contano ogni giorno di più, e gli Stati europei sono tutti piccoli, troppi piccoli, per farsi valere da soli sullo scacchiere globale. Se miriamo a negoziare con Cina e Russia o trovare la via per riconciliarci con Washington, se vogliamo affrontare i cambiamenti climatici, giocare la partita dell’intelligenza artificiale e della biotecnologia, o governare il fenomeno migratorio, possiamo sperare di farlo solo a livello europeo.

A parole lo capiamo, ma nei fatti dove siamo? Il 2020 è iniziato con un’escalation in Nord Africa e Medio oriente, regioni che sono parti integranti dello spazio geopolitico dell’Unione. È in questa regione, prima di ogni altra, che l’Europa è chiamata a manifestare il proprio “potere”, ossia la capacità di A di far fare a B ciò che questi non avrebbe altrimenti fatto. In che modo stiamo tentando di cambiare il corso degli eventi, allontanandoci dalla violenza e dalla conflittualità, verso la pace e la cooperazione?

Senz’altro lo facciamo a parole. Negli ultimi giorni certamente saggi sono stati gli appelli al dialogo, la moderazione e a una pace regionale del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, di von der Leyen, Borrell così come dei primi ministri di Francia, Germania e Regno Unito. Ma come europei abbiamo la cattiva abitudine di parlare molto e agire poco, rendendo gli annunci di un potere europeo marginali se non del tutto vacui.

In passato ce lo potevamo permettere. Gli Stati Uniti, sotto la quale egemonia il progetto europeo è nato e cresciuto, sono stati la potenza globale che ha determinato le sorti del Medio oriente, nel bene e nel male, sin dalla fine dell’influenza europea nella regione, a Suez, nel lontano 1956. Gli Usa sono stati il principale attore globale in Medio oriente con l’Unione sovietica durante la Guerra fredda e poi da soli, nel breve ma intenso momento di unipolarità globale che l’ha seguita.

Oggi Washington rimane una potenza globale così come una presenza in Medio oriente: sono ancora ben oltre 60,000 le truppe nell’area. Eppure ha perso il potere di modellare la regione a suo piacimento. L’ultima guerra vinta dagli Stati Uniti in Medio oriente risale alla guerra del Golfo del 1991. Da allora molti altri sono stati i conflitti nella regione, ma in nessuno di questi Washington è riuscita a conquistarsi la pace. La presenza non si traduce automaticamente in potere e in Medio oriente gli Usa hanno progressivamente perso l’abilità di determinare gli esiti del gioco. Contrariamente dalle apparenze, così è tuttora. Per la prima volta un Paese nemico degli Usa è riuscito ad attaccare una base militare americana nella regione con missili balistici e volutamente evitato di causare vittime.

Questo non implica necessariamente una fuoriuscita immediata degli Usa dalla regione, ma senz’altro spiega la crescente stanchezza americana in Medio oriente e dunque l’impulso a fare le valigie e andar via. L’uscita americana dalla regione è questione di quando, non di se.

Gli europei questo lusso non lo hanno. Le sorti della regione sono intrecciate con quelle dell’Europa, dalle dinamiche di sicurezza alla transizione energetica, dalle migrazioni all’instabilità politica. Dunque, oltre che parlare di pace, è giunto il momento di agire. Da un impegno più concreto a rispettare la nostra parte dell’accordo sul nucleare iraniano – attraverso le prime transazioni economiche che utilizzano il meccanismo di scambio Instex, creato per ovviare la sanzioni secondarie statunitensi – , all’impegno a rafforzare, se richiesta, la nostra presenza a sostegno delle forze di sicurezza irachene così come a consolidare un eventuale cessate il fuoco in Libia, è arrivato il momento dell’azione per l’Unione europea.

L’alternativa è continuare a parlare, per poi piangere sul latte versato non lontano, ma proprio su di noi.