IAI
In morte di un leader mediorientale

Il generale Soleimani e il peso della storia

16 Gen 2020 - Lorenzo Kamel - Lorenzo Kamel

Il raid statunitense che lo scorso 3 gennaio ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani e quello iracheno Abu Mahdi al-Muhandis ha spostato l’attenzione dalle proteste che hanno preso vita in questi mesi in Iraq, Libano e altri Paesi della regione dando al contempo vigore agli elementi più oltranzisti presenti in Iran.

A ciò si aggiunga che fino a quando tutte le parti contraenti erano vincolate all’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) non si erano verificati attacchi missilistici ai danni di obiettivi statunitensi, né contro impianti petroliferi sauditi.

Prima dell’annuncio dell’Amministrazione Trump del ritiro dall’accordo nucleare (nel maggio 2018) e della “guerra economica” seguita all’imposizione delle “toughest sanctions ever”, le tensioni nel Golfo erano infatti in calo. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), d’altro canto, aveva più volte certificato che l’Iran stava compiendo le “necessary reductions to its nuclear program and granted the IAEA the access necessary to verify the agreement”.

L’importanza del contesto
Le considerazioni appena menzionate, legate al presente o al recente passato, non aiutano tuttavia a comprendere le radici di quanto avvenuto in questi giorni. Per farlo è necessario prestare attenzione al “contesto”, ovvero, nelle parole di Milan Kundera, “al peso della storia”.

La storia contemporanea dell’Iran è infatti legata a doppio filo a quella dell’Occidente. Qui è sufficiente accennare al fatto che la Rivolta del tabacco del 1891-92 rappresentò la prima forma di resistenza organizzata volta a contrastare l’espansionismo delle potenze europee nell’area persiana: creò le condizioni “per l’ascesa dello sciismo come movimento insurrezionale in chiave anti-coloniale”.

Le origini della dinastia Pahlavi sono invece riconducibili a un colpo di Stato avvenuto nel 1921, dal quale, grazie in particolare al supporto garantito dalle autorità britanniche presenti nel Paese, emerse il regime di Reza Khan. Suo figlio, Mohammad Reza Pahlavi, salì al trono grazie a un altro colpo di Stato, tre decenni dopo, nel 1953.

Non meno gravida di conseguenze fu l’operazione attraverso cui la Cia e i servizi segreti britannici (Mi6), facendo leva su una serie di dinamiche interne all’Iran, rovesciarono (1953) il governo democraticamente eletto guidato da Mohammad Mossadeq: tale operazione è alla base di molte delle dinamiche che, 26 anni dopo, portarono alla genesi della “Rivoluzione islamica”.

Questi brevi esempi rappresentano lo specchio di un trend che, in forme e modalità diverse rispetto al passato, è tuttora in corso. Non sono solo gli iraniani a pagare un prezzo enorme per tali politiche e strategie, bensì larga parte del resto dei Paesi e degli abitanti presenti nella regione. Gli iracheni incarnano l’esempio più significativo e drammatico di ciò. Il loro Paese sta vivendo da 40 anni una destabilizzazione che si è declinata in forme diverse: dalle sanzioni economiche alla guerra aperta.

Essi hanno il pieno diritto di vivere senza subire interferenze esterne, siano esse riconducibili all’Iran (Paese confinante con il quale condividono legami culturali e risorse naturali) o agli Stati Uniti (che distano più di 11mila chilometri). Meritano di vivere in un Paese nel quale prevalga lo stato di diritto e che sia libero da ogni forma di repressione proveniente da attori statali o non-statali. Fornire un “contesto” e un retroterra storico alla loro sofferenza e alla storia della loro regione rappresenta un piccolo, benché rilevante, passo in quella direzione.

L’influenza di Teheran
Stando a dati forniti dal Dipartimento di Stato americano, il numero degli incidenti di terrorismo è aumentato del 6500% dall’avvio della “guerra al terrorismo” (199 attacchi nel 2002 a fronte di 13.500 nel 2014): metà di questi “incidents of terrorism” sono stati registrati in Iraq e Afghanistan. Nello stesso periodo, il numero dei decessi legati al terrorismo è aumentato del 4500%.

A ciò si aggiunga che l’Iraq ha storicamente rappresentato una sorta di baluardo che ha limitato l’influenza (persiana e poi) iraniana nella regione. Prima del 2003, il raggio e la capacità di azione di Teheran erano molto più limitati rispetto ad oggi. Il collasso dell’Iraq, giustificato con la falsificazione delle prove relative alle armi di distruzione di massa che si sosteneva fossero in dotazione a Saddam Hussein, ha creato le condizioni strutturali per l’espansione dell’influenza e delle milizie iraniane nella regione.

L’allora segretario di Stato americano Donald Rumsfeld chiarì che “We know where they [le armi di distruzione di massa] are”, mentre l’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, testimoniò al congresso degli Stati Uniti che non ci fosse “question whatsoever that Saddam is seeking, working, advancing towards to the development of nuclear weapons [..] If you take out Saddam’s regime, I guarantee you that it will have enormous positive reverberations on the region”.

In altre parole, alcuni degli attori che più hanno contribuito a creare le condizioni strutturali affinché l’Iran potesse imporsi nella regione, sono gli stessi che oggi chiedono alla comunità internazionale di agire per limitarne le capacità di manovra: violare l’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) rappresentava, agli occhi di quei medesimi attori, un passo necessario allo scopo. L’accordo sul nucleare avrebbe potuto (o potrebbe ancora) fornire le basi per reintegrare l’Iran nel sistema internazionale, riducendo in modo marcato le tensioni. Poter contare su un nemico sempre più imprevedibile e oltranzista appare tuttavia ad alcuni come uno strumento utile e necessario a giustificare strategie e politiche applicate alla regione.

L’ascesa di Qassem Soleimani
Qassem Soleimani aveva 23 anni quando Saddam Hussein lanciò l’invasione della neonata Repubblica islamica dell’Iran. Quest’ultima si trovò sin da subito quasi completamente isolata. L’Iraq, per contro, poté contare su ingenti fonti e materie prime per la costruzione di armi chimiche provenienti dagli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita e da alcuni Paesi europei. I documenti della Cia recentemente declassificati provano che Washington sostenne Saddam Hussein nell’utilizzo di gas nervini, incluso il sarin e l’iprite, ai danni di civili e soldati iraniani.

Soleimani iniziò la sua ascesa al potere durante gli otto anni di quella guerra, battendosi per la stabilità del suo Paese e garantendosi il rispetto e l’ammirazione di un limitato numero di commilitoni. In un momento storico in cui milioni di giovani iraniani lottavano al fronte per contrastare le forze irachene, anche i segmenti più critici della società iraniana si convinsero che in quella fase ci fossero altre priorità: un crescente e viscerale nazionalismo permeò allora quasi ogni strato della popolazione. La guerra tra Iran e Iraq cessò nell’agosto del 1988, appena un mese dopo l’abbattimento del volo di linea della Iran Air a causa di un missile terra-aria lanciato dall’incrociatore Vincennes della Marina americana: morirono 290 passeggeri, compresi 66 bambini.

Negli anni a seguire, non solo Soleimani rimase in larga parte lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica, ma combatté anche a fianco degli Stati Uniti durante l’invasione dell’Afghanistan del 2001: un’operazione appoggiata con convinzione da Teheran. Egli rimase sconosciuto a larga parte dell’opinione pubblica iraniana fino al 2003, quando la sua popolarità crebbe di pari passo con il collasso dell’Iraq e con le conseguenze che esso ha avuto nella regione. Ciò include in primis la nascita e lo sviluppo dell’Isis: “There, undeniably, would be no Isis, if we hadn’t invaded Iraq”, ha sottolineato David Kilcullen, ex consigliere del generale statunitense David Petraeus.

La nascita di un’icona
Soleimani venne invitato dal governo iracheno guidato da Nuri al-Maliki e, successivamente, da quelli di Haidar Abadi e Adel Abdel Mahdi, ad agire come ufficiali di collegamento in Iraq nella lotta contro l’Isis, la cui ideologia fondante è riconducibile al wahhabismo (il secondo gruppo più consistente tra i combattenti jihadisti in Siria e Iraq era composto da cittadini sauditi). Il generale raggiunse uno status iconico nel contesto dell’enorme caos seguito alla destabilizzazione e frammentazione della regione, il cui acme è stato registrato durante la guerra in Siria, che in anni recenti ha rappresentato la principale calamita per i “jihadisti salafiti” di tutto il mondo.

Le forze russe e iraniane – rappresentate dalle “Brigate Gerusalemme” guidate da Soleimani – hanno collaborato in modo concreto per promuovere i loro interessi strategici, a cominciare dall’appoggio congiunto garantito al dittatore siriano Bashar al-Assad, i cui crimini contro l’umanità sono stati documentati da diverse organizzazioni internazionali. Il fatto che Soleimani sia intervenuto a supporto di un brutale dittatore e che abbia avuto un certo ruolo nella morte di un numero incerto di civili rappresenta un’ulteriore conferma del fatto che non possa né debba essere considerato un paladino o un simbolo di pace o giustizia.

Eppure, citando un antico proverbio Yiddish: “Una mezza verità equivale a una piena bugia”. Il percorso umano di Soleimani è saldamente radicato nella storia della sua terra e, più in generale, della regione in cui è vissuto. È il prodotto di molte decisioni sbagliate, ma anche, e forse soprattutto, di un secolo di oppressione, interferenze esterne e, ancor prima, una perdurante richiesta di dignità e giustizia.