Un compito difficile: raccontare la politica internazionale
Assumo con il nuovo anno la direzione di AffarInternazionali, dal 2006 la rivista online dello storico istituto fondato da Altiero Spinelli cinquantacinque anni fa. Sono particolarmente grato al direttore dello IAI, Nathalie Tocci, e al presidente, l’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, per aver pensato a me per questo ruolo. Lavorerò con un team giovane e ambizioso e nuovi autori che si aggiungono ai ricercatori e collaboratori dell’Istituto. AffarInternazionali avrà nuove rubriche e sezioni, organizzerà forum su importanti dossier, sarà sempre più ricco di interviste, focus elettorali e, in esclusiva per l’Italia, pubblicherà le analisi dei più importanti think tank internazionali. Raccoglieremo la preziosa eredità di Giampiero Gramaglia e di quanti ci hanno preceduto per proseguire a svolgere, nel solco della tradizione della rivista, quello che oggi appare sempre più difficile: il comprendere, per raccontarle, le vicende e le relazioni della comunità internazionale.
Henry Kissinger, nel suo “L’ordine mondiale”, afferma che “alcune regole generali nelle relazioni internazionali vanno rispettate affinché non prevalga il caos”. Quel sostantivo scelto dal politico americano, che i filosofi antichi utilizzavano per intendere il disordine universale della materia precedente al cosmo, è oggi la cifra che caratterizza la condizione di larghe aree del pianeta e le strategie dell’uomo per regolare fenomeni come le crisi del clima e dell’ambiente, le migrazioni o le disuguaglianze.
Questo è il tempo della globalizzazione. Quando gli Stati-nazione si formarono, definirono tutto quanto era all’interno dei propri confini: identità e territorio. I confini non furono solo linee nette impresse sulla carta, ma qualcosa che se violato avrebbe rappresentato un attacco all’integrità dello Stato. Oggi la nazione, con queste peculiarità, ha perso la sua centralità. Tutto quello che un tempo era considerato esterno alla propria identità, con cui era necessario relazionarsi e confrontarsi in quanto altro da sé, è oggi diventato comune. Gli individui – con i loro sogni, le loro conquiste, la grande voglia di ricchezza per alcuni e la paura e la disperazione per altri – hanno reso più mobili e incerti confini stabili e fissi. Quella linea su cui fermarsi, oltre la quale non era lecito spingersi, cominciava a trasformarsi in area indefinita che invitava ad entrare.
Questo desiderio globale di trasformare in occasioni quanto era sinonimo di ostacolo e barriera sembra aver rallentato la sua forza propulsiva. Il politologo americano Ian Bremmer, qualche settimana fa sul quotidiano “La Stampa”, rilevava come “per la prima volta in quasi un secolo gli ingranaggi della globalizzazione iniziano ad incepparsi”. Si pensi alle difficoltà della polis internazionale di avvicinarsi a forme di governo globale e a forme di democrazia cosmopolita, di dotarsi di diritti e obblighi nuovi e validi per tutti, di misurarsi con l’esigenza di una diplomazia pubblica che coinvolga la società civile.
Non va meglio per i diritti dell’individuo, nonostante la velocità delle comunicazioni e della circolazione delle informazioni. A partire dal 539 a.C., fu un re persiano, Ciro il Grande, con le sue prime forme di libertà e tolleranza, a cominciare quel processo di riconoscimento “della dignità specifica e dei diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana”, che saranno sanciti per la prima volta nella storia moderna, con la redazione della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” nel 1948. Un tempo evidentemente non ancora sufficiente a liberarci da chi “non conosce altre leggi che i suoi capricci”, come Voltaire definiva i tiranni. In tanti luoghi del mondo – come ha raccontato ad AffarInternazionali Matthew Caruana Galizia, figlio di Daphne, la giornalista maltese assassinata – si prosegue impunemente a calpestare i diritti naturali dell’individuo.
Tornando al difficile compito che tocca ad AffarInternazionali, c’è una notizia di inizio anno che rappresenta la nostra epoca e come a volte sia impossibile comprenderne gli sviluppi. È la storia di Laurent Ani Guibanhi, un ragazzino ivoriano. Siamo ad Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio. Dopo la scuola, che frequentava con regolarità, Laurent corre verso l’aeroporto. Scavalca un muro e si nasconde tra i cespugli nel verde dello spazio aeroportuale. Riesce ad aggrapparsi al carrello di un Boeing 777 diretto a Parigi, poco prima del decollo, durante la fase di rullaggio. Il suo corpo sarà trovato all’interno del pozzo del carrello di atterraggio dell’aereo, sulla pista dell’aeroporto Charles De Gaulle. Laurent è morto per mancanza di ossigeno e per assideramento, le temperature a 10.000 metri di quota scendono a 50° sottozero. Era nato il 5 febbraio del 2005 a Youpugon, un sobborgo della capitale della Costa d’Avorio. Tra tre settimane avrebbe compiuto 15 anni. Aveva indosso solo una maglietta, ma sognava la nostra Europa.
Buona lettura.