La Cina e il Pil al tempo del coronavirus
Dopo le parole di Xi Jinping anche i più scettici si sono preoccupati. I concetti espressi dal presidente cinese sulla pandemia di Wuhan sono stati inequivocabili: serietà della malattia, sua accelerazione, obbligo di unità dietro il Partito comunista, fiducia nella capacità di sconfiggere il male. Sbiadisce dunque la sterile polemica tra sensazionalisti e relativisti, tra chi si allarma per i decessi e chi li mette in relazione con le 65.000 morti per influenza l’anno scorso negli Stati Uniti.
Non ha più importanza se il percorso del coronavirus – in un bizzarro itinerario da un pipistrello all’uomo passando per un serpente – sia frutto di un’illusione esotica o rappresenti una verità inoppugnabile. Ci troviamo dunque di fronte a un problema serio. La sua gravità dipende non tanto dal numero di morti che costellano tragicamente i conteggi, quanto dalla capacità della Cina di saperli fermare presto. In assenza di dati stabili sui decessi e sui contagi, sulla disponibilità prossima di un vaccino, sul rincorrersi di allarmi e di testimonianze, rimangono, oltre le parole di Xi, due àncore di valutazione: il paragone con la Sars e i tentativi del governo cinese di arrestare la minaccia mortale.
L’epidemia del 2003 lasciò sul campo quasi mille morti e una dimostrazione di arretratezza della Cina. Chi viveva a Pechino (come lo scrivente) ricorda le prime settimane di timore e sospetto, mentre si rincorrevano le voci di una malattia mortale. Le autorità smentivano qualsiasi preoccupazione, rassicurando le ambasciate e le comunità d’affari straniere. Ogni domanda veniva disattesa, rispedita al mittente con l’accusa di essere parte di una manovra internazionale tesa a screditare la Cina. Tutto era stato occultato, fino a quando l’evidenza si mostrò platealmente. Il sindaco di Pechino e il ministro della Sanità furono rimossi e sostituiti, mentre la Cina ammetteva l’esistenza della malattia.
Sono così cominciati i macabri resoconti giornalieri che davano conto dei decessi precedenti. Il Paese proibiva l’ingresso all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), si assumeva tutti i rischi delle cure, sostanzialmente confinava la Sars ad un fatto interno. I palazzi infetti venivano sigillati, i villaggi controllati dalle milizie locali. Se Pechino fosse stata esposta agli esperti stranieri, i suoi ritardi sarebbero stati ancora più evidenti. L’inesperienza, l’incompetenza, la sfortuna, la rigidità della propaganda si erano sommate in una miscela devastante. Come noto, dopo due mesi drammatici la Sars fu sconfitta ma, tra i tanti successi inanellati, rimane una terribile macchia nel percorso della Cina contemporanea.
Oggi, la situazione è molto differente. Il governo ha avvisato l’Oms, ha quasi subito dichiarato l’emergenza, è intervenuto isolando le città infette e ha imposto misure draconiane per gli spostamenti. Non ha perso tempo, anche se permangono le critiche sulle disfunzionalità, sulla scarsa trasparenza, sulla reticenza a diffondere brutte notizie da parte dei funzionari pubblici. La dirigenza si è dunque mostrata finora più preparata e certamente istruita dalle esperienze precedenti.
Una di queste è la necessità di costruire un nuovo ospedale a Wuhan, come nel 2003 a Pechino. I lavori sono già iniziati e la realizzazione è addirittura prevista in due settimane. Sarà un altro record che auspicabilmente accelererà la circoscrizione e la fine della pandemia. Si tratta tuttavia di una manovra consueta, imperniata su un’accelerazione produttiva. Si basa sulla disciplina della forza lavoro e non sul controllo dei mercati ortofrutticoli, sulla trasparenza informativa, sulla vigilanza della catena alimentare.
Aver trascurato questi aspetti a favore della crescita può rivelarsi un boomerang. Standard & Poor’s ha calcolato che se il coronavirus attuale dovesse proseguire il suo corso – anche senza arrivare a conclusioni spaventose – il Pil cinese potrebbe registrare una contrazione dell’1,2% su base annua. Soprattutto la mente fredda degli economisti rileva che questa analisi lascia interdetti e pessimisti. Si aggiungerebbe – per la Cina e per il mondo – agli altri macigni da rimuovere, dopo i tumulti di Hong Kong, le elezioni di Taiwan e la guerra commerciale con gli Stati Uniti.
È verosimile, dunque, che la malattia faccia il suo corso, sia presto sconfitta, ridia ossigeno a un Pil asfittico ma che si ripresenti sotto volti simili, una fenice che risorge dai suoi vaccini perché le cause della sua origine non sono state cancellate.