Usa 2020: democratici, tanti in lizza, ma leadership cercasi
A 320 giorni dall’Election Day del 4 novembre 2020, il Partito democratico si ritrova con molte idee ma senza una guida: presto i nodi verranno al pettine. Alla vigilia dell’ultimo dibattito del 2019 fra i democratici aspiranti alla nomination, il panorama delle primarie è giunto a uno snodo fondamentale.
Elettorato democratico a caccia di un candidato forte
Il grande assente sarà proprio l’uomo nuovo delle ultime settimane, Michael Bloomberg. L’ex-sindaco di New York, noto anche per le fortune imprenditoriali che l’hanno reso uno degli uomini più ricchi e influenti d’America e del mondo, è arrivato a giochi già aperti a dare l’ultima mano di carte (finora). La sua candidatura alle primarie democratiche – con alle spalle un sostanzioso passato nelle file del Partito repubblicano – era nell’aria da tempo; eppure, ha dato il via ad una trasformazione sostanziale di quello che fino a pochi giorni fa era il parterre di candidati più vario della storia.
L’assenza di una leadership chiara sta però mandando in fibrillazione l’elettorato democratico, il cui mantra della stagione è l’urgenza di designare un candidato forte. Un anti-Donald Trump in grado di batterlo sia nella propaganda sia galvanizzando le folle del più tradizionale elettorato progressista: giovani, donne e afro-americani. Insomma, una specie di messia che, a dire la verità, stenta a vedersi all’orizzonte.
Mike Bloomberg è sceso in campo con una strategia ben precisa che i pokeristi chiamano ‘all in’. Si presenta come l’uomo che ha non solo le caratteristiche per battere Trump, magari strizzando l’occhio ai suoi elettori, ma anche le risorse finanziarie, prevedendo di investire fino a 500 milioni di dollari nella campagna per la presidenza. Proprio il fare affidamento sulla sua stessa fortuna gli ha impedito di qualificarsi per il dibattito previsto per il 19 dicembre. Infatti, le complesse regole stabilite dal partito prevedono che i candidati in questa fase abbiano ricevuto fondi da un numero minimo di donatori esterni.
Al momento, del resto, non è neppure chiaro se il dibattito fra i democratici si farà, dato che è in corso uno sciopero del personale presso la Loyola Marymount University di Los Angeles, dove dovrebbe svolgersi. E molti aspiranti alla nomination democratica si sono già impegnati a non varcare i picchetti sindacali. Sono sette quelli qualificatisi, soddisfacendo i criteri che tengono conto dei dati dei sondaggi e della raccolta fondi: in ordine alfabetico, Joe Biden, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar, Bernie Sanders, Tom Steyer, Elizabeth Warren, Andrew Yang.
Un campo ampio, forse troppo
La corsa alle elezioni presidenziali dell’autunno 2020 è in fondo iniziata poche ore dopo i risultati che permisero a Donald Trump di diventare presidente della maggiore superpotenza mondiale. La sensazione di sconfitta profonda nel Partito democratico ha fatto sì che un numero notevole di esponenti, noti e meno noti, abbiano deciso di scendere in campo in questa elezione.
Non solo. L’inizio della procedura d’impeachment presso la Camera – per il cosiddetto Ukrainagate – certifica l’impressione che, dopo la batosta del 2016, i democratici americani non abbiano intenzione di commettere gli stessi errori che portarono alla sconfitta dell’ex first lady ed ex segretario di Stato Hillary Clinton. Nonostante la chiara determinazione a non farsi sfuggire questa opportunità, la corsa a ‘fare la propria parte’ dentro e fuori l’establishment del partito, unita a una fase interlocutoria di sempreverde analisi della sconfitta, ha generato un fitto affollamento.
Ad oggi (mercoledì 11 dicembre 2019), i candidati democratici alle primarie sono stati ben 29: ne restano 15, se escludiamo dal conteggio i contendenti già ritirati. Un parco di candidati che stupisce non solo dal punto di vista prettamente numerico ma anche per la varietà etnico-culturale e di genere, elemento sottolineato in maniera positiva da numerosi osservatori. Una diversità che, però, risulta nettamente ridimensionata dopo le prime scremature, lasciando in lizza quattro uomini bianchi, di cui tre sopra i settant’anni. Mentre solo una la donna ormai è veramente in grado di competere.
Altro elemento che ha caratterizzato la corsa, ma che pare già in via d’esaurimento, è l’attenzione a temi politici quali sanità, istruzione e politica estera. L’elettorato democratico, sul punto di rassegnarsi dopo anni di personalizzazione e accentramento dell’attenzione mediatica verso i leader, ha trovato nuove parole d’ordine, scaldandosi al suono di ‘green new deal’ e ‘medicare for all’.
L’ingresso di Mike Bloomberg rimescola le carte
Al momento, i candidati qualificatisi per il prossimo dibattito televisivo – previsto per il 19 dicembre – sono 12, anche se pare che a giocarsi davvero la partita siano rimasti in cinque. Se dovessimo tracciare una linea che da sinistra e destra copra lo spettro di orientamento politico dei candidati democratici di punta, troveremmo un inatteso equilibrio. Nonostante il vantaggio relativo, la candidatura di Joe Biden, ex senatore del Delaware e vice-presidente di Barack Obama, stenta sia decollare che a crollare. Lo stallo permane da mesi; e l’impeachment coinvolge direttamente in maniera negativa le attività del figlio Hunter, bloccando l’ex senatore a un livello di consensi alto ma sostanzialmente invariato da aprile.
Lo seguono, quasi a pari merito nei sondaggi, il senatore del Vermont Bernie Sanders e la senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren. Pare improbabile a uno sguardo europeo che il primo, autodefinitosi socialista, e la seconda, autodefinitasi capitalista, ma molto critica verso il mondo della finanza, si trovino spalla a spalla nell’area di sinistra dello spettro del partito democratico americano.
L’ingresso di Mike Bloomberg ha innescato tre dinamiche principali. La prima è una spinta alla riduzione del numero di candidati, oramai impellente, dato che le prime votazioni saranno nei caucuses dello Iowa il 3 febbraio. Un palcoscenico ancora troppo affollato minerebbe la capacità dell’aspirante presidente di imporre la propria leadership. La prima defezione eccellente è quella della senatrice della California Kamala Harris, che non è riuscita a convincere i propri finanziatori a continuare ad investire su di lei.
La seconda dinamica è conseguenza della prima. Ovvero, l’ingresso di un candidato forte come Bloomberg – bianco, anziano e per di più straordinariamente ricco – ha portato ad una riduzione del ‘tasso di diversità’ che aveva caratterizzato il campo democratico durante il 2019, portando sei donne e personalità provenienti da differenti culture ed etnie a correre per la nomination.
La terza è la possibilità per il giovane sindaco di una cittadina dell’Indiana, Pete Buttigieg, di fare da ago della bilancia tra quelle che potremmo definire, con un’iperbole, l’ala sinistra e l’ala destra dello schieramento. Non solo, dopo l’uscita di scena di Kamala, Harris Buttigieg ha puntato apertamente alla conquista del suo elettorato e in particolare della costituency afroamericana che gli manca per essere davvero competitivo. ‘Enfant prodige’ di questa corsa alla nomination, Buttigieg potrebbe avere l’aspirazione di diventare vice-presidente, ma è ancora presto per capire di chi.
Le sorprese potrebbero non essere ancora finite
I rumors suggeriscono che le sorprese fra i democratici non siano ancora finite. Circola voce che a dare il prossimo giro di carte possa essere l’ex presidente Obama che cerca di non commettere gli stessi errori che nel 2016 lo portarono all’endorsement precoce a Hillary Clinton nel tentativo di ostacolare l’ascesa di Bernie Sanders.