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Osservatorio IAI/ISPI

Ue/Italia: il Mes, l’agenda europea e l’interesse italiano

3 Dic 2019 - Franco Bruni - Franco Bruni

L’avvio della nuova Commissione europea e della nuova legislatura comunitaria ha in agenda temi economico-finanziari di grande rilievo per l’Italia. Spiccano il quadro finanziario pluriennale dell’Ue e diverse  riforme dell’eurozona da tempo in discussione, fra cui quella del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes).  Il primo tema comporta scelte di fondo strategiche per le politiche comunitarie dal 2021 al 2027 e dovrebbe trasformare la qualità delle entrate  e delle spese dell’Ue favorendo la produzione di beni pubblici europei preziosi per il nostro Paese, compreso il finanziamento di piani di investimento e di un’assicurazione europea che aiuti a fronteggiare forme specifiche di disoccupazione. Le possibili riforme dell’eurozona sono molteplici, da quella della disciplina dei bilanci pubblici nazionali al completamento dell’Unione bancaria e dei mercati dei capitali. È anche importante un buon inizio dei rapporti fra la nuova presidenza della Bce e la Commissione, il Consiglio, il Parlamento europei.

Attenzione non adeguata nel panorama politico italiano
Una così ricca agenda di riforme richiederebbe l’attenzione a tempo pieno del governo, che dovrebbe programmare con cura e diplomazia il suo contributo ai lavori del Consiglio e trovare le alleanze strategiche per ottenere risultati dimostrando che sono nell’interesse sia nazionale che europeo. Dal punto di vista finanziario l’Italia ha alcune fragilità evidenti nell’alto debito pubblico, rapportato a un Pil che cresce poco, e in alcune banche, poco redditizie e con troppi titoli di Stato e prestiti in sofferenza in attivo. Ogni passo verso un mercato finanziario europeo più integrato, robusto, solidale e pronto a gestire fasi eventuali di crisi è particolarmente prezioso per l’Italia.

Il quadro d’insieme dei progetti di riforma non pare però godere di adeguata attenzione nel panorama politico italiano che invece concentra il dibattito su una questione specifica, importante ma controversa, presentata spesso come un contrasto di interessi fra noi e i Paesi creditori del centro nord dell’eurozona, specialmente la Germania. Si tratta della riforma del Mes, il cui disegno è in corso da tempo e il cui varo prevede prossimi passi che richiedono l’unanimità e che secondo alcuni l’Italia dovrebbe bloccare con il veto.

La questione del Mes, banche e Stati
Il Mes  è l’istituzione che presiede alla gestione coordinata delle crisi finanziarie dell’eurozona. È un esempio di collaborazione solidale fra i Paesi europei, le cui finanze pubbliche forniscono gran parte delle sue risorse. Esiste da tempo ma la sua azione va rafforzata in modo da assicurare all’eurozona la capacità di fronteggiare fasi di difficoltà finanziaria (di singole banche o di un intero Paese membro) limitando i danni e contenendo l’instabilità.

La presenza del Mes rassicura i mercati e migliora l’uniformità della circolazione della moneta e del credito all’interno dell’eurozona. Metà della riforma del Mes consiste nel conferirgli una nuova funzione. Le sue ampie risorse potranno fungere da garanzia per gli interventi del cosiddetto Fondo di risoluzione unico europeo cui spetta erogare la liquidità di emergenza necessaria a gestire la crisi di banche insolventi. Non è stato facile negli anni scorsi costruire il consenso politico europeo per questa garanzia e sarebbe ora dannoso per tutti non approvarla.

La controversia riguarda però l’altra metà della riforma del Mes che anziché guardare alle crisi di singole banche si occupa delle crisi finanziarie che possono colpire un intero Paese membro, anche a seguito dell’indisciplina delle sue finanze pubbliche. Senza entrare in alcun dettaglio si può dire che i profili critici del Mes che è giusto vagliare con attenzione, sia nell’interesse nazionale che in quello comunitario, possono raggrupparsi in due punti.

I profili critici della riforma in due punti
Il primo consiste nel fatto che la riforma, in vario modo, tende a conferire al Mes, organismo intergovernativo e come tale suscettibile di speciali pressioni politiche da parte dei governi degli Stati membri, alcuni compiti che finora erano riservati alla Commissione, organismo comunitario e più ‘tecnico’, che dovrebbe essere indipendente dalle pressioni nazionali. In particolare il Mes potrebbe influire sulla valutazione della sostenibilità del debito pubblico di un Paese e quindi sul modo di gestire una sua fase di eventuale difficoltà di rifinanziamento. Il depotenziamento e il condizionamento intergovernativo del ruolo della Commissione sarebbero da evitare e contrasterebbero con uno dei capisaldi dello spirito dei Trattati.

In Italia qualcuno potrebbe temere che ‘i cattivi tedeschi’ usino il Mes per trattare la nostra finanza pubblica con più severità di quanto faccia la Commissione. Il paradosso è che i tedeschi vogliono trasferire compiti al Mes, che pensano diretto da tecnocrati inflessibili e indipendenti, perché considerano che ad essere politicizzata sia la Commissione, troppo sensibile all’influenza e al ricatto dei Paesi grandi debitori come l’Italia. Sarebbe interesse comune dell’Italia e dell’Unione semplificare le regole che disciplinano le finanze pubbliche nazionali, come si è già progettato di fare, così da diminuire la necessità di interpretarne la complessità creando imbarazzo politico alla Commissione.  Dovremmo appoggiare le iniziative di semplificazione da tempo in discussione, senza  dar adito al sospetto che badiamo solo a potere mantenere alto il nostro debito.

Il secondo punto è il più delicato: il Mes (già nella forma attuale) tende ad associare l’aiuto a un Paese in grave difficoltà con la  ristrutturazione del suo debito pubblico, senza quell’automatismo che una giusta obiezione italiana ha tempo fa contribuito a bocciare, ma con una riforma tecnica della procedura di ristrutturazione che la rende più facile da realizzare. Ristrutturare vuol dire in sostanza svalutare, coinvolgendo i creditori nei costi della crisi. Fra i creditori del nostro debito pubblico ci sono risparmiatori e banche italiane. Per alcune banche, in particolare, una svalutazione ingente dei titoli di Stato costituisce un rischio quasi insopportabile.

È bene distinguere quello che è opportuno in via preventiva, quando non ci sono in atto debiti e crediti grandi e fragili, da quello che è bene fare quando le regole impattano su fragilità accumulate prima della loro adozione. Nel primo caso, riconoscere che i debiti di un governo possono essere insostenibili, prevedendo anche un modo ordinato per deliberare la loro ristrutturazione, può avere un effetto disciplinante (anche su chi li acquista con poca prudenza!), evitare eccessi di indebitamento e facilitare, se gli eccessi cominciano a formarsi, la loro gestione e il loro arresto. Quando invece i debiti sono già elevati e precari il solo parlare di coinvolgere i creditori può allarmarne le aspettative e precipitare una crisi che si sarebbe potuta evitare.

Quel che conviene all’Italia
All’Italia conviene dunque che la riforma del Mes sia molto graduale nel prevedere procedure di ristrutturazione e permissiva nel consentire aiuti al Paese debitore senza far ricorso ad esse. Ciò conviene anche a tutta l’eurozona che pagherebbe cara una riforma che imprudentemente precipitasse la crisi di un debito grande come il nostro. Gli spazi residui della trattativa dovrebbero concordare su questa convergenza di interessi.

Ma all’Italia conviene anche essere più decisa e rapida nel ridurre il suo minaccioso debito pubblico e la sua pericolosa concentrazione negli attivi delle banche del Paese, guadagnando così anche credibilità e peso nell’influenzare la riforma.

Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.