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Dopo l'attentato a Londra

Terrorismo jihadista: ancora attivo, ma sconfiggerlo è possibile

4 Dic 2019 - Michele Collazzo, Francesco Pettinari - Michele Collazzo, Francesco Pettinari

Il 29 novembre c’è stato l’ennesimo attentato terroristico di matrice jihadista sul suolo europeo. Usman Khan, 28 anni,  cittadino britannico, già condannato per terrorismo e sottoposto a misure restrittive, è arrivato a Londra grazie a un permesso premio concessogli dalle autorità per assistere a una conferenza sulla de-radicalizzazione. Poco dopo ha colpito, armato di coltello, nel cuore della capitale britannica, sul London Bridge: prima di essere ucciso dagli agenti di polizia intervenuti sul posto, Khan è riuscito ad ammazzare due persone ed a ferirne altre tre.

L’attacco ha confermato che la minaccia del terrorismo jihadista è ancora attuale e imprevedibile, come poi ribadito dagli episodi di L’Aia e Parigi. Pertanto, i Paesi europei dovrebbero mantenere alta la concentrazione, dotandosi di strumenti appropriati per prevenire la causa che innesca questo terrorismo: la radicalizzazione.

Lo Stato islamico non è morto …
Sebbene la sconfitta territoriale del sedicente Stato islamico (Isis) in Siria e Iraq da parte della coalizione internazionale a guida statunitense con il supporto delle milizie curde e la successiva uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi potessero fare pensare di avere drasticamente ridotto la minaccia terroristica, la realtà dei fatti non corrisponde a quanto ipotizzato.

La perdita del controllo territoriale non ha portato alla morte dell’Isis, ma a una sua riorganizzazione e allo spostamento in altri teatri come il Sahel e l’Asia centrale. Inoltre, i nuovi capi dell’Isis hanno fatto sapere all’Europa che la morte dell’autoproclamato califfo non li ha spezzati, ma rinvigoriti. In un messaggio lanciato la settimana scorsa, essi hanno sottolineato come ormai siano “alle porte dell’Europa” e che il prossimo sarà un “Natale di vendetta”.

Piuttosto che lasciare presagire un attacco organizzato e spettacolare come furono quelli di Parigi e di Bruxelles del 2015 e 2016, il proclama dell’Isis sembra richiamarsi all’esortazione di al-Baghdadi che invitava gli adepti ad attaccare gli infedeli in qualsiasi modo e luogo possibile. Quel messaggio ha contribuito alla trasformazione del terrorismo jihadista, che ha cominciato a basarsi in maniera crescente su una serie di singoli soggetti che rispondono alla chiamata dell’integralismo dotandosi di armi improvvisate e con tecniche rudimentali.

… e continuiamo ad averlo in casa
Dunque, l’Isis si trova in uno stato di salute precaria, ma non per questo è incapace di colpire in Europa. Diversi anni di attività di reclutamento di giovani europei, avvenuta sia tramite la presenza sul territorio di predicatori radicali, sia tramite un’efficace campagna propagandistica condotta principalmente online, permettono allo Stato islamico di contare su una vasta schiera di simpatizzanti in tutta Europa. Essi sono principalmente immigrati di seconda o terza generazione, scolarizzati in Europa e spesso lontani dalla religione prima di iniziare un processo di radicalizzazione.

Tali soggetti potrebbero essere facilmente indotti all’azione da dichiarazioni come quelle recenti e ancor più motivati se alcuni attentati, seppur non particolarmente efficaci in termini di vittime causate, ma condotti con relativa semplicità e riscuotendo ampia attenzione mediatica, come quello di Londra, dovessero verificarsi in successione l’uno dopo l’altro.

Quest’ultimo fattore potrebbe infatti incoraggiare i singoli adepti a intraprendere azioni similari, innescando una spirale di violenza. Tutto ciò non permette di escludere una nuova serie di attentati, soprattutto se di facile realizzazione e condotti da singoli individui.

Le carceri: da poli di radicalismo a istituti riabilitativi
Al pari di moschee e altri centri di aggregazione socio-religiosa dove possono insediarsi predicatori radicali, le carceri possono rappresentare dei veri e propri poli di radicalismo capaci di trasformare comuni criminali in pericolosi e letali “soldati del Califfato”. Infatti, in momenti di estrema fragilità come possono essere quelli trascorsi in detenzione, la visione distorta, radicale e violenta della religione può trovare terreno fertile offrendo al soggetto una redenzione e protezione dal resto della società, definita impura ed avversa.

Pertanto, l’introduzione nelle carceri di personale che, forte di adeguate competenze, possa fornire un supporto psicologico adeguato e proporre un’alternativa credibile al fanatismo religioso risulta una necessità primaria. Anche la presenza di mediatori culturali sarebbe complementare agli sforzi volti alla prevenzione. Inoltre, come dimostrato dal caso di Usman Khan, la detenzione di individui già condannati per legami con il mondo del terrorismo jihadista non sempre serve ad allontanare il soggetto dall’ideologia terrorista.

Appositi percorsi di de-radicalizzazione che offrano visioni alternative e contribuiscano a facilitare il successivo reinserimento nella società degli stessi individui potrebbero giocare un ruolo determinante nel recupero di persone che, spesso condannate per connessioni marginali con la causa terroristica, non possono essere detenuti per periodi particolarmente lunghi.

La prevenzione parte dal basso
Poiché la maggioranza degli attentatori risulta essere immigrati di seconda o terza generazione, andrebbe tenuto in grande considerazione il ruolo che il percorso di scolarizzazione può giocare nella creazione di una contro-narrativa che riduca la possibilità di derive estremiste. Risulta infatti di fondamentale importanza partire dal basso per cercare di facilitare l’inclusione e la condivisione dei valori fondanti della società in cui gli immigrati di seconda o terza generazione si trovano a vivere, tenendo però presenti le specificità della cultura di riferimento che spesso è quella dei genitori o dei nonni.

Andrebbero dunque favorite le iniziative di inclusione fin dalla tenera età sia nelle scuole sia in altri centri di aggregazione giovanili, cercando di minimizzare i casi di isolamento e alienazione dalla società che risultano un fattore catalizzante della radicalizzazione. Andrebbe rafforzata la cooperazione tra entità statali e comunità religiose volte a minimizzare i rischi derivanti dall’insediamento di predicatori che istighino l’odio, allontanandoli in maniera tempestiva.

Gli spazi di manovra dell’Italia
L’Italia parte da una posizione più favorevole rispetto ad altri Paesi europei come ad esempio la Francia. Nel nostro Paese, infatti, il fenomeno migratorio ha origini ben più recenti, e il numero di immigrati di seconda o terza generazione risulta piuttosto contenuto. Ciò non significa che esista un nesso di causalità tra immigrazione e terrorismo, assunto tra l’altro smentito dai dati, ma mostra come sia possibile adottare con relativa semplicità misure che possano dare frutti nel lungo periodo, favorendo l’integrazione delle comunità immigrate e diminuendo il rischio di trovarsi a fronteggiare numeri rilevanti di radicalizzati potenzialmente pericolosi in futuro.

Questo significa fare prevenzione. Ed è possibile farlo in maniera non invasiva partendo dal basso o intervenendo con appositi processi di medio-lungo periodo volti al recupero e reinserimento di soggetti che siano finiti nella spirale del radicalismo violento.

Tutto ciò va accompagnato da apposite misure di contrasto intese ad allontanare le minacce imminenti. A tal proposito l’Italia ha varato il Decreto-legge 7/2015 convertito in legge il 17 aprile dello stesso anno grazie al quale è possibile espellere dal territorio nazionale persone che, in seguito a indagini approfondite, siano ritenute una minaccia imminente per la sicurezza nazionale. In base al decreto, sono già state effettuate più di 450 espulsioni dal 2015 ad oggi.

Quando si parla di contrasto al terrorismo, andrebbero messi da parte stereotipi quali quelli che vedono il tentativo di inclusione come di “sinistra” e tecniche di repressione come prerogative di “destra”. Al contrario, andrebbe adottato un approccio trasversale che consenta da un lato di prevenire il diffondersi della causa alla base del fenomeno e, dall’altro, di dotarsi di appropriati strumenti volti al contrasto immediato qualora dovesse emergerne la necessità.