Libia: l’insostenibile leggerezza della Realpolitik dell’equidistanza
Parlando con Repubblica dopo il viaggio in Libia, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha detto che la soluzione “non può prescindere dal dialogo con tutte le parti. Non si tratta di equidistanza, ma di realpolitik”. Il richiamo di Di Maio a August Ludwig von Rochau è certamente affascinante, ma quando si parla di Realpolitik normalmente si parla di azioni volte a preservare in modo pragmatico i propri interessi concreti senza tentazione alcuna verso cedimenti ideologici e sentimentali. A vedere come l’Italia si sta comportando in Libia, tutto questo sembra non esserci, a meno che l’interesse non sia quello di condannarsi all’irrilevanza eterna.
A parziale discolpa di Di Maio, va detto che il processo di equidistanza è iniziato ben prima del suo arrivo alla Farnesina, sebbene l’attuale ministro fosse già parte dell’esecutivo giallo-verde che ha iniziato questa manovra (ma non il principale responsabile). Processo non condiviso da tutti, però, a dimostrazione della frammentazione del mondo politico italiano su questi temi: si pensi, ad esempio, alla posizione marcatamente pro-governo di accordo nazionale (Gna) di Matteo Salvini e che il leader della Lega non ha mancato di esprimere pubblicamente in più di un’occasione.
Posizione sorprendente, se si pensa alla retorica ‘anti-islamista’ del generale Khalifa Haftar e alle potenziali affinità ideologiche tra i due, e pure all’influenza di alcuni gruppi della Fratellanza Musulmana rispetto al Gna; ma molto più logica se invece si analizzano freddamente gli interessi italiani – energetici, di sicurezza, geopolitici – in Libia. Essi sono principalmente localizzati nell’ovest del Paese. In tal senso, abbandonare il Gna significa rischiare di abdicare al perseguimento di questi interessi. Nell’attuale contesa, l’Italia rischia di perdere tutto, come ha lucidamente fatto notare l’ex sottosegretario agli Esteri Mario Giro.
Perdere terreno, perdere opzioni
Lo spazio per l’equidistanza travestita da realpolitik forse c’era prima, sebbene minima, ma nell’attuale conflitto iniziato il 4 aprile non esiste più. Questo conflitto aperto ha una nuova fase: Haftar non punta ad essere parte della soluzione; vuole essere “la” soluzione. Inoltre, i lutti che stanno colpendo molte famiglie in Tripolitania hanno provocato un inasprimento della retorica dell’odio intra-libico, ben visibile sui social media. In un Paese dove la ‘cultura della vendetta’ resta particolarmente forte, questo odio è destinato ad essere il carburante del conflitto futuro. Il che significa: anche una vittoria di Haftar, e il controllo sull’intero territorio formalmente nazionale, si tradurrebbe in una stabilità solo apparente e intrinsecamente insostenibile.
L’Italia, dall’essere uno dei principali sponsor del Gna, si è via via defilata per supportare questa idea dell’equidistanza. La conferenza di Palermo è stata il risultato essenziale di questa dinamica, ma è stata declinata in maniera decisamente sbagliata: alienando Tripoli senza nessuna influenza di ritorno a Benghazi, Tobruk e Baida. La Turchia ha salvato il Gna da aprile in poi, ma il Gna non avrebbe mai voluto divenire così dipendente da Ankara. Gli accordi militari e sulla Zee con i turchi in tal senso, sono il risultato anche della mancanza di attenzione italiana rispetto al Gna. Senza alternative, il premier Fayez al-Sarraj si è trovato costretto a muoversi in questa direzione quando i turchi hanno iniziato la de-escalation militare in Libia mentre si muovevano in Siria, e hanno poi alzato la posta per continuare il supporto.
L’Italia potrebbe anche scegliere Haftar, e ciò potrebbe avere una logica nell’ambito della più ampia geopolitica mediterranea, in un eventuale asse con Egitto e Grecia guardando alle dinamiche nel Mediterraneo orientale. Vi sono dei problemi, però, in questa logica: l’Italia avrebbe sempre una posizione di retroguardia rispetto ad Haftar non avendolo aiutato subito. Gli interessi italiani, in Libia, come già detto, sono principalmente nell’ovest libico, dove non è detto che Haftar capo di tutta la Libia unita aiuterebbe l’Italia, sempre per il proprio tardivo riposizionamento. Se si pensa, inoltre, che in alcune capitali del Golfo la parola “partizione” riferita alla Libia non è più tabù – ma già da un bel po’ -, si può capire che tipo di rischi ulteriori l’Italia corra qualora il risultato del conflitto fosse una divisione di fatto – se non formale – del Paese. Se i gruppi che fanno parte del Gna, dipendenti dalla Turchia, fossero poi loro a controllare questi territori da soli, un’Italia percepita come un Paese che li ha traditi, avrebbe poi la capacità di ristabilire questi legami?
L’Italia, la crisi libica e la militarizzazione del Mediterraneo: un dramma per il futuro?
La crisi libica, inoltre, è indicativa di trend più ampi molto significativi. Il Mediterraneo sta diventando sempre più l’arena di competizione tra vecchie e nuove potenze globali: Stati Uniti, Cina, Russia, Turchia, paesi del Golfo, e via discorrendo. Inoltre, le crisi libiche e siriane suggeriscono che – con gli americani sempre più inclini ad abdicare al loro ruolo di poliziotto globale, in particolare nel Mediterraneo – gli attori impegnati nel bacino vedono sempre di più lo strumento militare in termini clausewitziani, cioè di strumento per continuare la politica con altri mezzi.
Per l’Italia, questa dinamica è estremamente preoccupante e l’intero spettro politico dovrebbe quantomeno iniziare un dibattito aperto, franco e pubblico su come vorrebbe affrontare questi sviluppi. Uno dei motivi per cui l’Italia ha certamente scontato delle difficoltà oggettive nel muoversi in Libia negli ultimi mesi è legata ad alcune caratteristiche peculiari della propria politica estera storica rispetto all’uso della forza. Ad esempio, la centralità delle organizzazioni e del diritto internazionale per la politica estera italiana ha fatto si che l’Italia prendesse sul serio l’embargo Onu sulle armi in Libia, probabilmente uno dei pochi paesi nell’area a farlo. Al tempo stesso, la richiesta di aiuto militare del Gna è caduta nel vuoto perché l’Italia non vuole impegnarsi in contesti di questo tipo, soprattutto in uno scenario storicamente sensibile come la Libia. Ad ogni modo, il contesto mediterraneo sta cambiando, la militarizzazione dei conflitti politici diventa sempre più marcata, la competizione tra le grandi potenze pure, e la Libia ne è la prova più eclatante.
Da questo punto di vista, nell’ottica dell’indiscutibile centralità dell’articolo 11 della Costituzione repubblicana, questo problema dovrebbe essere affrontato per non farsi trovare poi impreparati. Come l’Italia vuole rispondere a questi sviluppi? Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, si è dimostrato conscio dell’esistenza di queste dinamiche, sottolineando la mancanza di una cultura della difesa, riconoscendo la specificità del mondo militare e ragionando su come le dinamiche di potenza globali siano intimamente legate con quelle mediterranee. Ma Guerini sembra essere uno dei pochi consci di questi problemi, e il dibattito fatica a prendere piede.
La crisi libica sta dimostrando che senza una capacità militare, non di tipo offensivo e aggressivo ma di supporto ad attori legittimi che eventualmente lo reclamino, e soprattutto la relativa volontà di utilizzarla qualora le condizioni lo richiedano, il rischio di irrilevanza in uno scenario sempre più militarizzato come quello del Mediterraneo venturo è enorme. E per un paese come l’Italia, che del Mediterraneo abbraccia tutti i suoi sub-quadranti regionali, significa essere particolarmente esposto in uno scenario in cui sarà sempre più difficile supportare una qualsiasi voglia equidistanza. Anche se Di Maio la chiama Realpolitik.
Foto di copertina © Xinhua via ZUMA Wire