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Verso le elezioni del 12 dicembre

Gran Bretagna: alle urne, errori, prospettive e la Brexit

8 Dic 2019 - Antonio Armellini - Antonio Armellini

Comunque finirà, sarà un pasticcio in cui ci rimetteremo un po’ tutti. La Gran Bretagna affronta le seconde elezioni anticipate in due anni con un Paese profondamente diviso, incerto di se stesso e del suo futuro, confrontato dalla scelta fra Boris Johnson e Jeremy Corbyn, due leader invisi alla gran parte dei rispettivi elettori. Con i suoi grossolani errori, Jo Swinson ha buttato al vento la possibilità per i liberal-democratici di ergersi ad ago della bilancia se non proprio di un ripudio della Brexit, quantomeno di un secondo referendum e della garanzia, nel peggiore dei casi, di una uscita soft.

Le incertezze della vigilia e gli errori dei leader
Difficile dire come andrà in Gran Bretagna: i sondaggi danno i conservatori in vantaggio, ma non si sa di quanto e si sono rivelati inaffidabili in passato. Non è chiaro quanto giocherà a favore del remain il voto dei giovani, che stavolta sembrano mobilitarsi di più, e quale sarà l’effetto della polemica sull’antisemitismo di Corbyn, alimentata dal suo pervicace rifiuto di scusarsi.

Egli ha detto che opporsi alle politiche di Israele e sostenere la causa palestinese nulla hanno a che vedere con l’antisemitismo; quello del rapporto fra antisionismo, Israele e antisemitismo è un terreno scivoloso ed avventurarvisi in piena campagna elettorale può risultare suicida. L’insistenza di Corbyn nel ribadire una posizione di vetero-sinistra subordinando alla sua coerenza ideologica i toni della campagna elettorale, ha tracimato nella testardaggine mettendo in luce per l’ennesima volta i limiti della sua leadership.

Se Johnson dovesse restare sotto i 325 seggi necessari per la maggioranza assoluta (ipotesi allo stato ritenuta possibile, ma non molto probabile), si aprirebbe una nuova stagione di incertezza. Un governo Tory di minoranza, privo di appoggi esterni e degli stessi unionisti nord-irlandesi, potrebbe non riuscire a far approvare bilancio e withdrawal agreement e Johnson sarebbe costretto alle dimissioni.

Il governo di minoranza laburista che potrebbe succedergli, con l’appoggio dei liberali e delle formazioni minori, potrebbe indire un secondo referendum e, nel caso di vittoria, passare a nuove elezioni che sancirebbero la disfatta di Johnson. Le variabili di simili scenari sono tuttavia difficili da valutare.

Le promesse di Johnson, non mantenibili, sulla Brexit
Una maggioranza di almeno trenta seggi, che molti prevedono, consentirebbe a Johnson di completare il processo di uscita entro il 31 gennaio 2020, come promesso, ma non di chiudere definitivamente la partita entro il 31 dicembre dello stesso anno. Una volta ratificato l’accordo di uscita da parte di Londra e dei 27, si aprirebbe il negoziato per la conclusione di un accordo di libero scambio fra il Regno Unito e l’Ue e mai nella storia di quest’ultima accordi del genere sono stati conclusi in meno di cinque anni, se non di più.

La promessa contenuta nel manifesto elettorale Tory è stata ridicolizzata da molti nello stesso partito, da Kenneth Clark all’ex speaker (e ormai star nazionale) John Bercow, ma viene ripetuta come un mantra da Johnson nei confronti di elettori che in parte vogliono crederci, ma più che altro sono stanchi di una saga infinita che distrae il Paese dalle urgenze di un’economia stagnante e da emergenze vere sul piano sociale, della sanità pubblica, educativo e delle infrastrutture. La tensione di un dibattito sempre più polarizzato, in cui le preoccupazioni si intersecano con una valanga a stento contrastata di fake news, alimenta la confusione mentre la Gran Bretagna del boom della finanza si scopre sempre più ineguale e comincia a preoccuparsene.

L’ipotesi di un’uscita dall’Ue ‘ragionata’
Volendo proprio guardare nella sfera di cristallo, si può azzardare l’ipotesi di una fuoriuscita della Gran Bretagna ragionata, con una transizione di diversi anni per arrivare alla conclusione dell’accordo di libero scambio e con un premier Johnson che muta posizione in proposito nel corso dell’estate, addebitando la colpa alle trame di un’opposizione distruttiva e all’intransigenza ottusa di una Bruxelles al traino di Merkel e Macron (ammesso che entrambi siano ancora in grado di dettare le regole).

Il quadro resta fluido. Le intemperanze londinesi di Donald Trump non hanno avuto l’effetto temuto di danneggiare la campagna dei tories, ma le preoccupazioni per una svendita del National Health Service ad interessi americani una volta che la Brexit dovesse portare a un abbraccio più stretto con Washington, resta forte.

Il voto ‘tattico’, grazie a cui liberal-democratici e laburisti dovrebbero stipulare accordi di desistenza per sconfiggere i conservatori nei seggi dove sono più esposti, non è riuscito a prendere quota, troppo grandi essendo le rivalità di quanti avrebbero dovuto allearsi.

I diversi volti di un Regno (dis)Unito
Resta la possibilità di alcune vittorie di bandiera, come la sconfitta di Dominic Raab e dello stesso Johnson, che potrebbero trovarsi fuori dal Parlamento ma, effetto psicologico a parte, non risolverebbero granché. Se il Sud-Est ricco e inglese rimane terreno di caccia protetto per la Brexit e se i suoi elettori sognano ancora la rinascita del Commonwealth e si richiamano allo ‘spirito di Dunkerque‘ per respingere come settant’anni fa l’invasione straniera, nel Centro-Nord de-industrializzato, dove imperano disoccupazione e un rifiuto dell’immigrazione dai toni razzisti, le possibilità di recupero del voto laburista appaiono modeste.

La Scozia è un punto interrogativo per il labour, anche se è persa per i conservatori, e in Irlanda del Nord il voto degli unionisti protestanti appare indirizzato soprattutto alla protesta. Quasi tutti escludono che Johnson cerchi davvero una hard Brexit ma la polarizzazione è tale che un errore di percorso, o una polemica di troppo, potrebbero determinare l’irreparabile.

Gli interrogativi senza risposta sul perché della Brexit
Resta lo stupore di come una democrazia stabile ed efficiente, un Paese dalle strutture di governo prese spesso a modello e dalle capacità negoziali riconosciute come la Gran Bretagna, abbia potuto infilarsi in un’avventura che rischia di metterne in discussione i tratti fondamentali, senza avere una idea chiara di dove puntare e in assenza di qualsiasi strategia negoziale.

Indicendo un referendum che pensava di vincere, per un mero calcolo di tattica politica interna, David Cameron ha commesso un errore che rischia di provocare la crisi più grave degli ultimi tre secoli, mettendo in pericolo l’unità delle quattro nazioni che sin qui compongono il Regno Unito. Non solo per l’abborracciato sistema pensato per l’Irlanda del Nord, ma per la spinta che una fuoriuscita – specie se hard – avrebbe sull’indipendentismo scozzese con un probabile effetto di trascinamento in Galles. Che una simile prospettiva non sembri sconvolgere più che tanto i leavers alla Jacob Rees-Mogg è una rappresentazione plastica della loro autolesionistica hubris.

Comunque finisca, l’immagine internazionale della Gran Bretagna esce devastata dalla Brexit, non solo per l’incapacità di governo e negoziale sottolineate da una classe politica la cui mediocrità mette in discussione la validità dei meccanismi di selezione interna cui molti avevano guardato con ammirazione, ma anche per l’effetto sulla “Madre dei Parlamenti”, come chiamano i Comuni gli stessi inglesi.

Il sistema maggioritario uninominale ha assicurato una rappresentanza efficace per una democrazia stabile, capace di riconoscersi in una scelta binaria: il confronto fra globalismo internazionalista e localismo nazionalista non ha trovato rappresentanza nell’allineamento politico tradizionale e ha scardinato trasversalmente entrambi i partiti aprendo fronti nuovi ed imprevisti per la rappresentanza democratica. E’ immaginabile che un partito come il Brexit party, forte del consenso di circa il 20 per cento dell’elettorato, non abbia nemmeno un seggio ai Comuni?

I 27 hanno smentito le preoccupazioni di quanti paventavano potessero finire disgregati dall’effetto dirompente della Brexit. E’ successo il contrario; l’aspettativa della Gran Bretagna di dividere il campo avverso, partendo dal gruppo di Visegrad, è andata delusa e l’unità mantenuta dall’Ue durante tutto il negoziato – grazie anche all’abilità politica di Michel Barnier – è stata una sorpresa positiva. Aldilà del convincimento ribadito che l’Europa rappresenti alla fine dei conti un esercizio a somma positiva irrinunciabile, la Brexit ha chiarito a chiunque fosse tentato di seguirne le tracce quanto uscire dall’Ue sia non solo svantaggioso, ma impossibile o quasi. Come Londra ha sperimentato.