Bioterrorismo: passato e presente, la scienza del terrore
Invisibili. Silenziosi. Spietati. Sono gli ‘strumenti’ del bioterrorismo. Contro di loro le armi sono inutili e, quando ci si accorge della loro presenza, a volte è già troppo tardi per salvarsi. A loro non interessa chi siano le vittime né le discriminano per idee politiche, etnia, genere, età o religione: cercheranno di uccidere chiunque sia abbastanza sfortunato da incontrarli, perché questo è ciò che la natura detta loro.
Non stiamo parlando di esseri umani, ma di forme di vita infinitamente più piccole, chiamate con nomi che talvolta mettono i brividi solo a sentirli: antrace, vaiolo, ebola, e molti altri ancora. Sono i microrganismi patogeni (bacteria e virus) e sono tra i nemici più pericolosi che l’uomo abbia mai conosciuto. Tuttavia, ciò che spaventa non è l’esistenza di tali organismi patogeni (a volte vecchia di secoli), bensì il fatto che esistano persone o gruppi di persone disposti a farne uso per i propri scopi, colpendo con il bioterrorismo.
Dalla guerra al terrorismo
L’idea di utilizzare armi di tipo batteriologico non è un’invenzione recente. Storicamente, già in epoca medievale era nota la pratica di catapultare corpi infetti per diffondere epidemie all’interno delle città assediate: un bioterrorismo rudimentale e relativamente efficace. Ciononostante, questo tipo di arte bellica ha visto un’evoluzione spropositata solo nell’ultimo secolo, durante il quale diverse potenze svilupparono un proprio programma di armi biologiche a livello militare. Tra gli esempi di programmi più avanzati si possono menzionare quelli giapponese (anche tramite l’Unità 731 dell’esercito dislocata in Manciuria), statunitense (chiuso da Nixon nel ’69 e smantellato completamente nel ’73) e sovietico (anch’esso ufficialmente chiuso qualche anno più tardi).
Tralasciando i numerosi crimini di guerra commessi dai militari giapponesi durante il secondo conflitto mondiale, la storia del programma sovietico presenta un punto di svolta significativo. Similarmente all’incidente di Chernobyl, sebbene di portata nettamente inferiore, la fuga di antrace verificatasi da un impianto di ricerca a Sverdlovsk nel 1979 (conclusasi con 64 vittime) convinse le autorità di Mosca a rivedere drasticamente lo sviluppo del proprio arsenale batteriologico. Si tratta in ogni caso dell’ultimo atto di guerra biologica (non intenzionale) documentato. Fino al 2001.
Non fosse già stato sufficiente l’attacco terroristico al World Trade Center di New York l’11 Settembre, una settimana più tardi gli Stati Uniti assistettero a un altro fatto inquietante: una serie di lettere contenenti spore di antrace venne immessa nel sistema postale statunitense, provocando cinque vittime (su 18 persone infettate) e alimentando il panico dell’intera nazione, già messa a dura prova. Sebbene l’esatta dinamica e il movente di tale gesto rimangano tuttora parzialmente oscuri, tale azione dimostrò una realtà scioccante: la guerra biologica non si combatte più al fronte, ma sulla porta di casa. Nessuno si sentì più al sicuro.
Ciò che uccide, ciò che protegge
Quando entrano in gioco attori non statali votati alle più irrazionali cause, l’applicazione di modelli matematici per contrastare o anche solo valutare un ipotetico attacco diventa più complessa, così come l’elaborazione di una strategia di contrasto efficace.
In maniera non dissimile dalle armi chimiche, il bioterrorismo dispone di uno spettro di applicazione relativamente ampio: avvelenamento del cibo, dispersione in ambienti affollati e, nondimeno, mass disruption, sono tutti scenari praticabili che tenterebbero qualunque persona sufficientemente squilibrata da volerli attuare. Inoltre, bisogna considerare l’evoluzione delle minacce Nbcr, riflettendo su come lo sviluppo tecnologico e le forze di mercato abbiano di fatto reso più accessibili risorse e strumenti utilizzabili in maniera potenzialmente nociva.
Tuttavia, come buona parte delle minacce di tipo Nbcr, anche la seconda lettera dell’acronimo ci pone davanti all’ennesimo dilemma sul dual-use. Specialmente in un settore importante come quello della ricerca medico-scientifica, la realtà è difficilmente osservabile in bianco o in nero.
Soprattutto nel caso dei virus, mettere a punto un vaccino efficace richiede un’analisi, quindi dei campioni, del ceppo originale dell’organismo che si intende combattere. Su tale principio si fondano il concetto stesso di difesa biologica (biodefence) e le funzioni di strutture come l’Usamriid (Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito degli Stati Uniti), che costituiscono tutt’oggi la prima e ultima linea di difesa contro questo tipo di minacce.
Vincere i cuori e le menti
Diversamente dai suoi corrispettivi chimici, radiologici e nucleari, un attacco biologico presenta rischi e difficoltà considerevoli dovuti all’utilizzo di organismi viventi.
In primis, è necessario un adeguato sistema di dispersione, che non esponga i fragili agenti virali a condizioni atmosferiche (soprattutto temperature) in grado di comprometterne l’efficacia o anche la sopravvivenza, comunque non garantita anche al momento della dispersione. In secondo luogo, occorre valutare le proprietà genetiche di ogni microrganismo, come velocità di diffusione e letalità. Ad esempio, un organismo con un alto tasso di letalità potrebbe rivelarsi inadatto per un attacco su vasta scala, poiché ucciderebbe troppo rapidamente un numero troppo ridotto di individui per espandersi fino a livelli epidemici. Allo stesso modo, un agente virale con bassa velocità di diffusione o poco aggressivo darebbe alle forze di pronto intervento un tempo di reazione sufficiente a isolarne o, nel migliore dei casi, a neutralizzarne gli effetti.
Sono soltanto due elementi di un’equazione molto più complessa, il cui risultato resta comunque un’incognita per via della variabile ‘contagio’. In breve: uno scenario difficile per gli attori del bioterrorismo, specie considerando la recente mobilitazione di molti governi verso la prevenzione efficace delle minacce Nbcr.
Concludendo con un ragionamento a mente fredda, per definizione stessa di terrorismo, spesso i danni maggiori non sono dovuti alla reale portata di un attacco, ma ai disordini e al panico di massa che ne consegue. Come scritto nel 2002 dalla giornalista Adriana Bazzi, in riferimento agli eventi post-11 Settembre: “il virus più efficace che i bioterroristi sono riusciti a disseminare in America è stato quello della paura.”
A 18 anni di distanza, il concetto non è cambiato: nel momento in cui lo Stato riesce a convincere i cittadini della propria capacità di neutralizzare tali minacce, il terrorismo ha già perso buona parte della sua battaglia.