America Latina: l’Uruguay va a destra, la Bolivia attende
La sconfitta al ballottaggio delle presidenziali di Daniel Martínez, candidato della coalizione di centrosinistra Frente Amplio in Uruguay, e la momentanea uscita di scena di Evo Morales in Bolivia sembrano aver chiuso quel ciclo progressista iniziato in America Latina con la vittoria di Hugo Chávez in Venezuela.
La Bolivia e l’Uruguay rappresentavano le ultime roccaforti rosse nella regione, colorata quasi interamente dei colori socialisti e socialdemocratici dai primi anni Duemila e per circa quindici anni. La marea rosa figlia di quella linea politica denominata “socialismo del XXI secolo” che ha visto tra i suoi protagonisti Chávez, Morales, il brasiliano Lula, gli uruguayani Pepe Mujica e Tabaré Vazquez, i coniugi Kirchner in Argentina, si è ritirata inesorabilmente a partire proprio da Buenos Aires.
Quello argentino fu, difatti, il primo governo rosso a cadere, con la vittoria del neoliberista Mauricio Macrì nel 2015. Piano piano, come in un effetto domino, tra risultati elettorali e vicende giudiziarie, sono stati spazzati via tutti i governi progressisti, dal Brasile di Dilma Roussef, fino a Cile e Paraguay. Oggi che ha perso gli ultimi bastioni rimasti, la sinistra sudamericana torna a sorridere solo grazie alla vittoria di Alberto Fernández in Argentina.
Il cambio di passo nel Paisito
Dopo 15 anni, l’Uruguay ha svoltato a destra. I risultati del ballottaggio di domenica 24 novembre sono diventati ufficiali solo pochi giorni fa. Il ridotto margine di differenza di voti tra i due candidati presidenti ha costretto la Corte elettorale a ricontare i voti contestati. Per poche migliaia di preferenze, a prevalere è stato il conservatore Louis Lacalle Pou, 46enne esponente del Partido Nacional.
Il Frente Amplio, la coalizione di centrosinistra che candidava l’ex intendente di Montevideo Daniel Martínez, è stata sconfitta dopo aver primeggiato al primo turno. Per il Paisito, si è trattato di un ritorno a destra dopo i governi progressisti di Mujica e Vazquez e gli ottimi risultati economici del Paese, il cui Pil pro capite è il più alto del Sudamerica.
Il presidente eletto Louis Lacalle Pou, figlio di un ex presidente uruguayano, si insedierà il prossimo marzo e ha già dichiarato di voler riconoscere l’autoproclamato (da quasi un anno) presidente del Venezuela Juan Guaidò, rimarcando la differenza con il suo predecessore Vazquez, che ha appoggiato fino all’ultimo il governo Nicolás Maduro. Il ciclo progressista in Uruguay è terminato per pochi voti ma lascia al Paese importanti conquiste dal punto di vista dei diritti civili, con la legalizzazione dell’aborto e del matrimonio egualitario.
Verso nuove elezioni in Bolivia
Molto più complesso e fluido è, invece, il quadro politico boliviano. A vincere al primo turno le elezioni del 20 ottobre era stato Evo Morales, il primo presidente indigeno della storia al potere dal 2006. La sua candidatura – la quarta consecutiva e in principio proibita dalla Costituzione – e la sua contestata elezione sono parse, a una parte dei boliviani e alla comunità internazionale, forzature istituzionali.
Forte delle percentuali plebiscitarie delle sue precedenti vittorie e dei risultati raggiunti dal punto di vista economico e sociale durante i suoi governi, Morales ha cercato il quarto mandato, risultando eletto, pur dopo una serie evidente di irregolarità, tra cui l’interruzione di diverse ore dello spoglio.
All’indomani della sua elezione, però l’opposizione non ha riconosciuto il risultato parlando di brogli e incitando i boliviani a scendere in piazza. La situazione nel Paese è degenerata in violenti scontri e violenze tra gli oppositori e i sostenitori di Morales che, dopo essersi dimesso, ha lasciato la Bolivia per rifugiarsi in Messico. Gli scontri e i morti delle proteste hanno spinto l’esercito a prendere in mano la situazione, alimentando lo spettro del golpe paventato da Morales ancor prima delle elezioni presidenziali.
Per riempire il pericoloso vuoto istituzionale causato dalle dimissioni di Morales e di diversi membri del suo governo, così come previsto dalla Costituzione boliviana, nelle scorse settimane la vicepresidente del Senato Jeanine Añez si è autoproclamata presidente dello Stato plurinazionale di Bolivia. Tra gli attacchi di Morales, che dal Messico continua a incitare i suoi sostenitori e accusare Añez e il suo sfidante Carlos Mesa di essere dei golpisti, il Paese prova a ripartire con un nuovo governo e la prospettiva di nuove elezioni presidenziali.
La strada per le nuove consultazioni, pur se tracciata, non ha ancora tempi certi. Il Parlamento tuttavia, all’interno del quale gli esponenti del Mas – il partito di Morales – rappresentano i due terzi degli eletti, negli scorsi giorni ha approvato all’unanimità un provvedimento che annulla le elezioni del 20 ottobre.
La questione della leadership in Sudamerica
Le sconfitte di Morales e del Frente Amplio in Uruguay pongono la sinistra sudamericana davanti ad un grosso problema di ricambio della leadership. Se a Montevideo il problema è generazionale, con un partito che non riesce a trovare eredi di Mujica e Vazquez, a La Paz Morales ha forzato la mano e cercato un ennesimo mandato facendo leva sul consenso – non solo politico – che i boliviani, soprattutto i più poveri, nutrono verso il primo presidente indigeno della storia, simbolo del riscatto della popolazione.
Che la sinistra sudamericana fatichi a trovare nuovi leader all’altezza dei presidenti protagonisti della marea rosa è evidente. A dimostrarlo ci sono il ritorno sulla scena in Brasile (oggi governato dall’ultraconservatore Jair Messias Bolsonaro) di Lula, scarcerato di recente e mai dimenticato dal suo popolo, ma anche la vittoria di Alberto Fernández in Argentina, il cui ticket con l’ex presidente e first lady Cristina Fernández de Kirchner come vice è stato determinato per riportare i peronisti alla Casa Rosada.
Foto di copertina © Mauricio Zina/ZUMA Wire/ZUMAPRESS.com