Turchia: l’operazione in Siria nel dibattito politico interno
In seguito ai colloqui separatamente condotti con Stati Uniti e Russia, e in particolare dopo la firma del Memorandum of Understanding (MoU) tra i ministri degli Esteri di Mosca e Ankara, Sergej Lavrov e Mevlüt Çavuşoğlu, la Turchia ha chiuso con successo le operazioni nel Nord-Est della Siria assicurandosi una safe zone libera dalle milizie curde dello Ypg, nella quale iniziare a pianificare il reinsediamento di parte dei 3,6 milioni di profughi siriani attualmente presenti in territorio turco.
Dal punto di vista internazionale ciascun attore celebra la propria vittoria, specialmente la Russia, che si inserisce sempre di più nelle dinamiche regionali a discapito di Washington, e il presidente statunitense Donald Trump che – a fronte dell’arretramento in Siria – rivendica il mantenimento della promessa di disimpegno da quelle che definisce “guerre infinite e inutilmente logoranti”, ma anche il mantenimento degli interessi sulla regione petrolifera del nord-est siriano (ancora sotto il controllo delle Forze democratiche siriane, Sdf).
Per quanto riguarda il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, abile nel destreggiarsi in un campo minato costituito dagli interessi contrapposti russo-americani, l’operazione Barış Pınarı, Sorgente di Pace, è stata un’iniezione di fiducia e un successo propagandato come grande vittoria di tutta la nazione turca, in un periodo nel quale il suo consenso era stato messo fortemente in discussione. E infatti, l’operazione in Siria ha avuto degli ovvi effetti sugli equilibri politici interni, opportunamente ricercati e pianificati attraverso la costruzione di una precisa narrazione.
Una questione di integrità nazionale
In un video rilasciato all’agenzia di stampa turca Anadolu Ajansi in occasione della vigilia della Festa della Repubblica (Cumhuriyet Bayramı, 29 ottobre), Erdoğan parla dell’operazione Barış Pınarı come di una nuova pietra miliare nella “battaglia storica per proteggere il presente e il futuro della nazione”. Una battaglia che egli paragona alla guerra d’indipendenza iniziata esattamente un secolo fa da Mustafa Kemal Atatürk, padre della patria turca, e che in questa nuova versione è una lotta di difesa da un presunto piano internazionale per indebolire la Turchia e minare l’unità della nazione.
La retorica che ha scandito le varie fasi dell’operazione, come di tutti gli ultimi anni del potere di Erdoğan, è la retorica della cosiddetta bekâ: un termine del turco arcaico che significa ‘sopravvivenza’, intesa come sopravvivenza della nazione e difesa a ogni costo dagli attacchi dei nemici interni ed esterni di un’integrità nazionale quasi-sacralizzata. Un concetto che non faceva parte dell’iniziale bagaglio retorico di Erdoğan e del suo partito Akp, ma che è stato mutuato dal vocabolario nazionalista radicale, caratterizzando sempre più i contenuti della narrazione di Erdoğan.
Ciò è conseguenza dell’alleanza con il partito ultranazionalista Mhp, che ha spinto l’Akp verso una retorica e una linea politica sempre più spostate su un’impostazione aggressiva e monolitica del nazionalismo turco. Un esempio si è avuto nelle elezioni amministrative del marzo 2019, nella quale Akp e Mhp hanno insistito nel descrivere gli avversari – il partito kemalista Chp, Partito Repubblicano del Popolo, e quello di sinistra filo-curdo Hdp, Partito Democratico dei Popoli – come minacce all’unità nazionale.
Se gli esiti di quella tornata elettorale, specialmente nelle grandi città, non hanno dato ragione a Erdoğan, Barış Pınarı viene invece presentata come un grande successo della sua amministrazione nella difesa dell’integrità nazionale contro la minaccia terroristica curda dello Ypg/Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione paramilitare che opera in Turchia e che è considerata terroristica da Ankara (oltre che dall’Ue e dai Paesi Nato).
Il successo della propaganda
È proprio questa la chiave della popolarità dell’operazione militare. Erdoğan ha costruito una propaganda volta a promuovere l’intervento militare basandosi su due pilastri che trovano solide basi nell’opinione pubblica.
Il primo è il dipingere Barış Pınarı come un’operazione non di aggressione ma di sicurezza e pro-bekâ, in quanto diretta contro l’asse del terrore separatista Pkk-Ypg. Temi rispetto ai quali, come evidenziano i sondaggi della Kadir Has Üniversitesi (Università Kadir Has, Khü) di Istanbul, la popolazione turca è trasversalmente favorevole, oltre le appartenenze politiche. Mentre le operazioni militari erano in corso, inoltre, sono state condotte ulteriori indagini sull’opinione dei turchi che mostrano come il sostegno popolare sia elevatissimo. A parte gli elettori del partito filo-curdo Hdp, infatti, gli altri – Akp e Mhp – mostrano picchi di oltre il 95%; e si va oltre il 60% per il partito kemalista d’opposizione, Chp.
Il secondo pilastro della propaganda è legato alla questione dei rifugiati siriani. Sin dal suo intervento all’Onu nel quale ha presentato l’idea della safe zone, Erdoğan ha sottolineato come questa sarebbe stata necessaria per reinsediare fino a due milioni di rifugiati siriani. Anche questo è infatti un tema fortemente sentito in Turchia: lo studio della Khü evidenzia come oltre il 67% dei turchi sia insoddisfatto rispetto alla presenza di così tanti rifugiati siriani (oltre 3,6 milioni).[1]
Inoltre, il fatto che solo il 12,7% dei turchi sosterrebbe una campagna militare d’intervento diretto nella questione siriana è utile a capire perché la retorica di Erdoğan abbia così tanto insistito sui due pilastri citati e non sul presentare Barış Pınarı come una campagna militare offensiva.
Il ruolo dell’opposizione
A fronte di questa retorica del regime, non è emersa una linea compatta e risoluta dell’opposizione – ad eccezione dell’Hdp -, che pure anche su questi temi si era contrapposta nella recente campagna elettorale per le amministrative del marzo 2019.
Al contrario, la risoluzione passata nella Grande Assemblea turca sulla prosecuzione della presenza militare nelle regioni a maggioranza curda in Siria e Iraq è stata approvata anche con i voti del Chp. Ciò può spiegarsi alla luce dell’ampio consenso all’operazione Barış Pınarı presso l’opinione pubblica: sarebbe stato estremamente controproducente, in termini di consenso, promuovere una linea contraria al parere della maggioranza della popolazione (e dei propri elettori).
Eppure, ridurre la posizione dell’opposizione al solo calcolo politico o a un totale appiattimento sulla linea di Erdoğan sarebbe superficiale. Le stesse dichiarazioni del leader del Chp, Kemal Kılıçdaroğlu, che spiega come il voto nella Grande Assemblea fosse in favore delle operazioni umanitarie e contrario a qualsiasi politica estera aggressiva, fanno riflettere sulla complessità delle reali posizioni, pur oscurate dal voto favorevole e da un supporto/astensione dalla critica diretta.
È necessario prendere in considerazione le variabili di questa complessità. In primis, le conseguenze sulle dinamiche politiche: opporsi apertamente a una questione di sopravvivenza nazionale potrebbe essere un grosso assist al governo per apporre l’etichetta di ‘minaccia interna alla bekâ‘ sull’opposizione, rendendola bersaglio di massicce critiche e di delegittimazione – che in Turchia vengono quasi sempre insieme -.
In secundis, bisogna tenere in considerazione l’esistenza di una legislazione repressiva in vigore in Turchia, specialmente la legge antiterrorismo e le relative previsioni del codice penale emendate in senso ulteriormente restrittivo dopo il fallito golpe del 2016. Come spiega uno dei maggiori studiosi della questione curda, İsmail Beşikçi, “quella del regime non è una semplice ideologia […], ma un’ideologia protetta da sanzioni amministrative e penali. Se la si critica o rifiuta, c’è un’alta probabilità di essere soggetti a tali sanzioni” e di venire considerati fiancheggiatori dei terroristi/separatisti. Tanto più su un tema come questo.
[1] Si noti che questo dato è molto più alto per i sostenitori dell’opposizione del Chp (82,6%) che per l’Akp (59,0%)