Siria: confine del disordine tra Turchia, Russia e Stati Uniti
In Siria, nel confine del disordine, teatro dell’invasione turca iniziata il 9 ottobre scorso, sono tornati anche gli Stati Uniti, nonostante il ritiro annunciato dal presidente Donald Trump un mese fa. I soldati americani, insieme alle Forze democratiche siriane, hanno infatti iniziato, lo scorso 31 ottobre, i primi pattugliamenti nel nord-est del Paese, vicino ai pozzi petroliferi di Deir es-Zorz.
Le operazioni hanno riguardato la zona di Qahtaniyah, nella provincia di Hasakah vicino al confine iracheno, dove in base agli accordi di Sochi tra Turchia e Russia dovrebbero schierarsi le truppe di Damasco insieme alla polizia militare di Mosca. Se dunque la sicurezza al confine nord-orientale della Siria era l’obiettivo principale del Memorandum dello scorso 22 ottobre siglato tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e quello russo Vladimir Putin a Sochi, lo stesso confine resta in queste ore una zona occupata militarmente da truppe di diverse bandiere: i siriani di Bashir al-Assad; i curdi che fino a poche settimane fa mantenevano il controllo della zona; turchi e russi impegnati nei pattugliamenti per contrastare l’azione dello Ypg curdo e per la stabilizzazione della safe zone estesa 440 km a est dell’Eufrate; e ora anche gli Stati Uniti.
Il ruolo della Russia di Putin
L’invasione turca lanciata con l’offensiva ‘Sorgente di Pace‘ del 9 ottobre ha modificato, ancora una volta dallo scoppio di quella che sembrava essere una Primavera araba in Siria, le dinamiche e gli equilibri in Medio Oriente. Il destino di Damasco è tracciato nei dieci punti del Memorandum turco-russo, che non transige sul mantenimento dell’integrità territoriale siriana e vede Mosca come garante della pace.
In base all’accordo, Turchia e Russia potranno condurre pattugliamenti congiunti fino a 10 chilometri in territorio siriano, fatta eccezione per Qamishli, principale centro curdo nell’area. È Putin l’uomo in grado di mantenere i rapporti con Assad, così come con gli iraniani, i turchi e i curdi, costretti a chiedere aiuto alla Russia e, loro malgrado, allo stesso Assad. La ragnatela diplomatica russa, però, è di certo complicata da un Erdogan impaziente, intenzionato ad andare ben oltre il controllo della safe zone.
Turchia alle prese con Nato, Ue e Isis
Ankara, storico membro della Nato, sempre più in rotta di collisione con l’Occidente e più vicina a Mosca, dopo il parziale ‘semaforo verde’ di Trump sul ritiro delle truppe, con il suo intervento militare, ha provocato l’arretramento dei combattenti curdi di oltre 30 chilometri.
Una tregua, quella di 150 ore sancita dal Memorandum turco-russo, troppo breve per assolvere alle questioni di sicurezza poste in ballo da Erdogan con l’inizio dell’invasione in Siria: tra queste, oltre che procedere alla messa in sicurezza dei suoi confini e ricostruire il consenso interno, anche individuare i sospetti terroristi, insieme alle loro famiglie, e scegliere come e dove rimpatriarli.
È toccato al ministro degli Interni turco, Suleyman Soylu, far deflagrare un nuovo caso a riguardo: il fedelissimo falco di Erdogan ha dichiarato ai giornalisti che “la Turchia non è un hotel per membri dell’Isis”, minacciando di rimandare i combattenti stranieri del jihad nei loro Paesi di provenienza. Ankara apre così un nuovo contenzioso con l’Europa, a cominciare dall’Olanda, da dove vengono le due ultime donne fermate e presunte jihadiste.
La guerra in Siria resta un test per la politica estera turca e per il mantenimento degli equilibri all’interno e all’esterno della zona mediorientale.
La guerra all’Isis resta centrale su più versanti. Con la morte di Abu Bakr al-Baghdadi, nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, nel governatorato di Idlib, si apre la successione del nuovo ‘califfo’ Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi. Singolare il ritrovamento di al-Baghdadi proprio a Idlib, controllato da una coalizione di milizie ribelli, con Hayat Tahrir al-Sham (Hts) in testa, e zona in cui le forze statunitensi non avevano operato negli ultimi anni: ad aprirsi è lo scenario in base al quale l’Isis sia in procinto di riconciliarsi con le forze qaediste. Nelle parole di Trump non sono mancate le critiche agli alleati europei per la loro inerzia nella gestione del rimpatrio dei foreign fighters.
Le sanzioni Usa e la questione curda
Con i nuovi pattugliamenti statunitensi, inaugurati il 31 ottobre, le carte del conflitto si mescolano di nuovo. Il Congresso statunitense ha approvato, con democratici e repubblicani uniti e a gran voce, due importanti provvedimenti: l’imposizione di sanzioni contro la Turchia per bloccare l’offensiva nel nord-est della Siria e il riconoscimento come ‘genocidio’ del massacro di 1,5 milioni di armeni perpetrato dall’Impero Ottomano tra il 1915 al 1923.
Un fatto, quest’ultimo, che ha importanti ripercussioni per ciò che sta accadendo in Siria: l’invasione turca non riguarda, infatti, solo la popolazione curda, ma anche i pochi armeni rimasti nella regione e i cristiano-siriaci, una minoranza ortodossa molto vicina agli armeni.
La questione dei curdi non può infine restare sullo sfondo nella vicenda dell’invasione turca. Secondo i dati più recenti di Amnesty International, la Turchia avrebbe rimpatriato forzatamente centinaia di rifugiati curdo-siriani, già prima del tentativo di creare la ‘zona sicura’ al confine. Le autorità turche parlano invece di un totale di 315mila persone tornate in Siria in modo del tutto volontario.
La polveriera siriana, detonata più volte dall’intervento più o meno attento degli attori coinvolti, resta tuttora di difficile soluzione, facendo inoltre presupporre faticose previsioni di pace. Il fronte siriano sembra assumere sempre più le sembianze di un disordine strategico, in cui l’unico ‘pendolo’ nella gestione della crisi non è il solo coinvolgimento turco, con le sue alleanze e la politica estera di Erdogan, ma il risultato di un riposizionamento delle sfere di influenza nel Medio Oriente.
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