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Elezioni regionali e comunali

AmLat: onda verde da Argentina a Colombia, Bolsonaro isolato

9 Nov 2019 - Carmine de Vito - Carmine de Vito

La Colombia non fa eccezione: il sentimento di contestazione anti-establishment che sta agitando tutta la regione non risparmia – e non era scontato – il Paese ‘cafetero’. Le elezioni regionali e comunali del 27 ottobre hanno prodotto un vero terremoto, assolutamente inaspettato e imprevedibile solo alcuni mesi fa, nella geografia politica del Paese.

Il risultato delle elezioni
A Medellin ha vinto il figlio di un meccanico, Daniel Quintero Calle; a Turbaco l’ex-guerrigliero Guglielmo Torres, conosciuto come il cantante delle Farc; a Cali Jorge Iván Ospina,  medico e figlio di un comandante M19; e a Cartagena William Jorge Dau Chamatt, avvocato e attivista nei movimenti anti-corruzione costretto a vivere diversi anni negli Stati Uniti, in esilio, per le minacce di morte legate al suo impegno civile.

È la nuova onda verde, dal nome del partito ‘Alianza verde’, che vince nella capitale Bogotá con la prima sindaca nella storia della città, Claudia Lopez. Femminista, omosessuale, anticonformista, tanto rigorosa quanto determinata, la Lopez è la figlia ideale di quello straordinario processo di modernizzazione che fu la rivoluzione dell’educazione di Antanas Mockus, ex sindaco degli anni 90, matematico, filosofo e soprattutto visionario convinto di potere realizzare il cambiamento attraverso la comunicazione e la pedagogia.

Questa volta l’eccezionalità del voto riguarda tutte le latitudini dell’arcipelago Colombia, comprese le roccaforti terriere uribiste; un voto articolato nell’affermazione di tutte le forze favorevoli agli accordi di pace; il movimento progressista Colombia Humana di Gustavo Petro e il movimento di centro di Sergio Fajardo.

La destra uribista perde male, subendo un duro colpo alla storica capacità di gestione del consenso, soprattutto nelle aree di frontiera, dove entra in crisi il profilo di garanzia hobbesiana esercitato sulle comunità.

Un segnale chiarissimo per il governo di Ivan Duque che, nonostante un quadro macroeconomico stabile e una crescita intorno al 3% , sconta una condizione di stanca quotidianità: uno stato di smarrimento, dopo aver fatto passi importanti, e la sensazione di una strisciante normalizzazione in atto.

La sistematica uccisione dei leader sociali
Dalla firma degli accordi in Colombia sono stati uccisi 167 dirigenti indigeni e 140 guerriglieri delle Farc che avevano deposto le armi. Il sistematico assassinio dei leader sociali è sicuramente il fenomeno criminale più velenoso e infido della transizione colombiana. Si tratta dell’uccisione scientifica delle figure chiave della riconciliazione nazionale; simboli delle tante comunità e umanità schiacciate dal conflitto perenne.

A morire sono sindacalisti, difensori di diritti umani e attivisti culturali, prevalentemente indigeni e contadini che lottano con le loro comunità per difendersi da narcotrafficanti e paramilitari, i quali mirano ad occupare i territori abbandonati dalle Farc, sfruttando l’attuazione del cronogramma di restituzione delle zone e disarmo.

La violenza in Colombia ha sempre costituito un imponente strumento di controllo sociale, di economia e di potere, determinando l’autarchia di ampie aree con plus-valenze grigie e criminali.

Lo Stato non è mai stato riconosciuto come agente legittimo di unificazione della società a causa di un feroce antagonismo bipartisan ereditato dal XIX secolo. Pertanto, l’attuazione e l’implementazione degli accordi di pace, attraverso la restituzione dei territori, lo sradicamento delle colture illecite, l’affermazione dello Stato in termini di credibilità, sovranità e identità, possono avere una chance solo con il sostegno delle comunità e delle istituzioni periferiche.

L’ex presidente premio Nobel Juan Manuel Santos aveva lavorato per recidere il rapporto incestuoso tra periferia, zone grigie e autorità locali, affermando la forte centralità del progetto di riconciliazione nazionale e ponendola come condizione primaria nella ricostruzione civile delle zone dilaniate dal conflitto.

Esattamente il contrario dell’impostazione uribista che non ha mai valorizzato il contributo di Santos alla sconfitta delle Farc, indispensabile nella fase più violenta di fallimento dello Stato. Ha accettato gli accordi come qualcosa di ingiusto e, come ha efficacemente scritto Jerónimo Ríos su El Pais del 23 agosto, “ha ignorato i suoi impegni più profondi, per puntare a una conformità a bassa intensità”.

Il quadro geopolitico latinoamericano
Nell’area latino-americana, le previsioni di crescita economica si sono drasticamente ridimensionate: secondo Alicia Barcena, segretario esecutivo della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America Latina e i Caraibi (Cepal), la regione è impantanata in “incertezza e rallentamento” e quest’anno crescerà appena dello 0,2%, il tasso più basso dal 2016.

Stati Uniti e Brasile, principali interlocutori di Bogotá sotto l’aspetto politico ed economico, che sembravano partire da posizioni di vantaggio, devono confrontarsi con variabili d’area di forte impatto.

Trump, libero dall’approccio radicale di John Bolton, dopo gli errori commessi sul Venezuela, sa bene che una sovra-esposizione in America latina può essere compromettente per le (ormai) vicine elezioni presidenziali 2020: l’area porta solo problemi e nessun ritorno, meglio continuare solo con le politiche securitarie e di protezione dell’economia.

In Ecuador e in Cile, le proteste popolari contro le misure di austerity annunciate dai governi conservatori, con tutto quello che ne è seguito, stato di emergenza e repressione, riaprono la riflessione sull’adesione ai programmi di prestito e sviluppo dell’Fmi e sulla loro applicabilità a contesti così stratificati e vulnerabili, riproponendo la ciclica conflittualità tra neo-liberismo e integrazionismo.

Il capolavoro di Cristina in Argentina, le difficoltà di Bolsonaro in Brasile
Il capolavoro politico di Cristina Fernandez de Kirckner
in Argentina diventa perfetto quando la candidata vice-presidente, nel comizio di chiusura della campagna elettorale e nel pieno delle proteste popolari in tutta la regione, si riprende – senza più tatticismi e/o imbarazzi – scena e pulpito da leader al grido di “Nunca Mas” (mai più) al neoliberismo.

Con la vittoria kircknerista in Argentina si scompone l’allineamento neo-liberale che solo pochi mesi fa faceva massa critica e muoveva la geopolitica sub-continentale.

Il Brasile di Jair Messias Bolsonaro, invece, si ritrova in una condizione di difficoltà. La retorica neo-revisionista bolsonariana risulta molto incisiva nei momenti di deriva sociale, molto meno quando la protesta assume caratteri politici di coesione sociale. Con l’economia ferma (crescita del Pil allo 0,9%) e un quadro internazionale politico e sociale mutato, prevedibilissima era la liberazione dell’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva, accolta e preparata con enfasi politica, unendo la sua causa a quella delle sorti del Paese.

L’ordine di scarcerazione è giunto a tempo di record dopo la decisione del Tribunal Supremo (cinque contrari e sei favorevoli, decisivo il voto del presidente Antonio Dias Toffoli) di modificare la giurisprudenza di libertà dell’imputato fino all’ultimo ricorso possibile.

Il rischio per la Colombia del giovane presidente Duque è di svolgere l’inappagante ruolo del fratello minore lungo l’asse Trump-Bolsonaro. A Duque, ora come non mai serve lucidità e autonomia. Dopo il voto in Argentina la geopolitica nella regione ha un’altra unità di misura.