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Dopo l'intervista a The Economist

Macron: l’intellettuale e il politico, le condizioni di una leadership

9 Nov 2019 - Riccardo Perissich - Riccardo Perissich

L’intervista del presidente francese Emmanuel Macron all’Economist ha qualcosa in comune con quella a suo tempo rilasciata dall’allora presidente statunitense Barack Obama a The Atlantic. Entrambi sono degli intellettuali prestati alla politica con un certo successo: caratteristica ormai rara, in un mondo di mastini abbaianti su twitter, di imbonitori e di schiavi dei sondaggi.

Ok l’intellettuale
Come e ancora meglio del celebre discorso della Sorbona, l’intervista è un’espressione articolata di un pensiero che riesce a tratti a analizzare bene la complessità dei problemi che l’Europa deve affrontare. Tutto si può dire di Macron, tranne che esiti di fronte ai problemi reali. Tutti i punti che tocca, dalla crisi della Nato e dei nostri rapporti con gli Usa, a quelli con la Russia e la Cina, alla nostra impotenza nella crisi siriana, alla necessità di colmare il pericoloso gap tecnologico dell’Europa sono questioni che gli europei non possono evitare di porsi. Ancora più importante è il vigoroso richiamo all’affermazione di una “sovranità europea” in un mondo pieno di nazionalismi vecchi e nuovi.

Ma l’uomo non è solo un intellettuale; è il presidente della Francia. Constatando la paralisi che affligge la politica degli altri grandi Paesi dell’Ue (Germania, Italia e Spagna), oltre all’uscita della Gran Bretagna, rivendica in modo abbastanza esplicito per la Francia e dunque per se stesso la leadership del processo. A questo punto, però, il giudizio sull’intellettuale deve cedere il passo a quello sul politico.

Ma il politico? Tre condizioni per una leadership di successo
Nella situazione di transizione e di debolezza istituzionale in cui si trova l’Ue, non c’è nulla di male, anzi è necessario che uno o più Paesi assumano una funzione di leadership. In fondo è toccato spesso fin dall’inizio alla coppia franco-tedesca e più recentemente ad Angela Merkel. Nella situazione attuale, ogni iniziativa deve essere giudicata principalmente sulla sua idoneità a diminuire la diffidenza reciproca che avvelena da anni le relazioni fra i Paesi europei. 

Ci sono tre condizioni perché una leadership europea possa avere successo. La prima è che il leader deve indicare una strategia, una direzione di marcia. Da questo punto di vista non si può contestare a Macron una mancanza di chiarezza nella visione. Tuttavia non basta dire dove si vuole andare; bisogna aggiungere come e con chi.

La seconda condizione per una leadership efficace è che deve essere inclusiva. Ciò non vuol dire che deve a priori cercare l’unanimità dei consensi; ci mancherebbe. Deve tuttavia essere capace di parlare anche il linguaggio dei propri interlocutori, almeno i più importanti, e in un certo senso farsi carico della loro visione del mondo. Altrimenti la sfiducia non diminuisce. Non basta parlare con loro in continuazione “per convincerli” perché questo non è un esercizio pedagogico, ma di costruzione del consenso.

Gli interlocutori che Macron deve conquistare in priorità sono di due tipi. Prima di tutto c’è la vasta zona del Nord Europa, che non comprende solo la Germania ma include anche l’Olanda e gli altri nordici. Sono Paesi coscienti della crisi della Nato, ma tradizionalmente atlantisti, e che sono anche istintivamente liberisti e per cui il rigore dei conti pubblici è un valore importante. Essi hanno anche a torto o a ragione ereditato dai tempi del gollismo una profonda diffidenza verso la Francia, considerata a priori protezionista e anti-americana.

Ora il linguaggio utilizzato da Macron nell’intervista sembra a volte inutilmente fatto apposta per confermare i pregiudizi; come per esempio quando in modo estemporaneo contesta il limite del 3% per il deficit di bilancio, l’architrave del sistema di Maastricht e certamente non il problema prioritario in questo momento. Difetto di linguaggio che oscura, per esempio sulla Nato e gli Usa, un ragionamento invece complesso ed equilibrato; equilibrio che però scompare quando sembra suggerire un’Europa equidistante fra Usa e Cina.

Malgrado dichiarazioni di rispetto, sembra che ci sia un’incapacità profonda di capire l’Europa del Nord, per esempio lamentando il loro ricorso a governi di coalizione. Macron dimentica così che proprio quelli sono i Paesi dove, malgrado evidenti difficoltà, la democrazia liberale è più solida e che sono almeno immuni da violenti cambiamenti del pendolo elettorale che è invece il rischio negli Usa, in Gran Bretagna e anche in Francia.

Il secondo gruppo di Paesi sono quelli dell’Est. Alcuni di essi, la Polonia e l’Ungheria, stanno subendo una pericolosa involuzione illiberale. Altri nutrono un timore quasi ossessivo anche se non ingiustificato della Russia. Sono partner difficili, ma che abbiamo l’obbligo di comprendere e stabilizzare: ne va della nostra sicurezza, in un arco che va dal Baltico all’Adriatico, in cui hanno avuto origine due guerre mondiali. Annunciando generiche aperture alla Russia, non basta dire: parlerò ai polacchi e ai tedeschi. È giusto lamentare il troppo facile abuso dell’allargamento come strumento di politica estera, ma concludere frettolosamente che si possono stabilizzare i Balcani e contrastare la penetrazione russa e cinese con altri strumenti è quanto meno superficiale. È bene fare dell’Africa una priorità e lamentare gli errori commessi in Libia. Ma come è possibile farlo senza comprendere anche le priorità italiane?

La terza condizione della leadership è che non deve essere percepita come principalmente diretta a soddisfare la propria opinione pubblica. Colpisce quindi l’ultima parte dell’intervista dove, dopo avere costruito ragionamenti rigorosamente ‘europei’, finisce per rivendicare “un’eccezione francese” basata come sempre sul possesso dell’arma nucleare, del seggio all’Onu, sulla francofonia e sul ruolo internazionale del Paese. Sono accenti meno arroganti e presuntuosi, ma che ricordano in qualche modo la rivendicazione “dell’eccezione britannica”.

Salvare il soldato Macron?
La conseguenza di tutto ciò è che, facendo il bilancio dopo il famoso discorso della Sorbona, Macron ha da offrire solo qualche inizio di accordo sulla difesa e un consenso di principio su un misero bilancio dell’eurozona. La prima impressione dopo questa importante intervista è purtroppo di isolamento, che è il contrario della leadership; peggio, può condurre a un aumento della diffidenza.

Non può passare inosservato che la prima aspra critica sia venuta dalla normalmente prudentissima Angela Merkel, l’alleato indispensabile. È difficile dire se questo stato di cose sia dovuto a questioni caratteriali, a una comprensibile insofferenza per l’immobilismo tedesco, o alla palese inadeguatezza di molti collaboratori. Eppure è auspicabile e urgente che a ciò si ponga rimedio. Con tutti i suoi difetti, Macron resta la migliore speranza per il proprio Paese e per l’Europa.