Libano: proteste, Hezbollah e i rischi di ingerenze esterne
Dopo più di una settimana dalle dimissioni del primo ministro del Libano Saad al-Hariri e nonostante il susseguirsi di discorsi e prese di posizione da parte dei principali attori politici libanesi, il Paese dei Cedri resta bloccato in un pericoloso immobilismo politico. Le recenti dichiarazioni del presidente Michael Aoun e del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, più che sciogliere la matassa libanese, pongono ulteriori incognite sul futuro di un Paese alla ricerca di nuove prospettive di partecipazione e cittadinanza dopo decenni di malgoverno, corruzione e cleptocrazia.
Celebrate come la prima importante vittoria della piazza, le dimissioni di Hariri, non hanno provocato lo ‘shock’ che lui stesso aveva auspicato. Il leader del Future Movement, in realtà, non ha mai abbandonato la scena politica libanese e su richiesta del presidente Aoun ricopre adesso il ruolo di primo ministro ad interim.
Le rivendicazioni dei manifestanti
I manifestanti, che inizialmente avevano riempito le piazze per protestare contro nuove imposte regressive decise dall’esecutivo, hanno espresso a chiare lettere le proprie rivendicazioni. Prima tra tutte le dimissioni del governo in carica e con esso di tutti gli esponenti della classe politica libanese, personaggi che da decenni risiedono nei palazzi del potere, spartendosi favori e clientelismi per consolidare il proprio consenso nelle rispettive comunità confessionali che compongono il tessuto sociale libanese.
“Killon yaʿni killon”, “tutti significa tutti”: questo il coro che continua a rimbombare, a distanza di più di 20 giorni di protesta, per le strade libanesi, anche dopo la notizia delle dimissioni del primo ministro e la promessa di un nuovo governo tecnico non settario fatta dal presidente Aoun nel suo ultimo discorso. La piazza libanese vuole la caduta del regime e non si accontenta di vuote dichiarazioni di intenti, continuando a fare pressione in primis su Aoun, perché la sua timida apertura verso le rivendicazioni dei manifestanti prenda quantomeno la forma di una data per l’inizio delle consultazioni.
La sfida più difficile inizia adesso. Mentre c’era consenso pressoché unanime tra i protestanti in merito alla necessità di fare cadere il governo come primo passo per il superamento del sistema politico confessionale, arrivati a questo punto non è chiaro il da farsi. Se infatti è vero che c’è una volontà comune per la formazione di un governo tecnico, è pur vero, che le forme che il nuovo esecutivo potrebbe assumere sono molteplici.
La presenza di figure tecniche, da sola, non assicurerebbe infatti l’estinzione delle dinamiche settarie dei partiti confessionali, perché è ben possibile che dietro un esperto al ministero dell’Economia si nasconda in realtà una longa manus nota. Vi sono poi le speculazioni in merito a chi avrà l’incarico di formare il governo e si paventa l’ipotesi che spetterà di nuovo ad Hariri. Le preoccupazioni della piazza in merito a un agonizzante prolungamento dello stallo politico si fanno quindi più che comprensibili, soprattutto alla luce del continuo peggioramento dell’economia libanese e dei 252 giorni che ci sono voluti per formare l’ultimo esecutivo dopo le elezioni del maggio 2018.
Hezbollah al bivio
Hezbollah si trova ora in una posizione scomoda. Tutti i riflettori sono puntati sul partito sciita, vero perno delle decisioni politiche in Libano. È arrivato il momento di stabilire se prendere le parti della piazza, recuperando la sbiadita immagine di attore anti-establishment vicino alle istanze del popolo libanese e cercando nel frattempo di trarre un vantaggio politico dalle manifestazioni, oppure portare avanti la linea più cauta assunta e ribadita a più riprese dall’inizio delle rimostranze.
Parlando per la prima volta davanti a una bandiera che non è quella del suo partito, ma quella nazionale libanese, Nasrallah ha messo in guardia la società civile in protesta rispetto al ‘caos’ cui andrebbe incontro il Libano qualora si creasse un vuoto governativo. Agitando lo spauracchio della guerra civile del ’75, da un lato Hezbollah cerca di salvare il salvabile, visto il netto consolidamento del proprio potere politico, economico e militare dal 2006 a oggi, ma dall’altro cerca di non alimentare le opposizioni popolari, cosciente della forza imponente di una piazza che non vuole ridimensionarsi e dei rischi a cui andrebbe in contro il partito qualora uscisse allo scoperto come principale sostenitore dello status quo.
Mentre la classe politica rimane paralizzata nella prudenza di Hezbollah e nelle promesse di un governo tecnico di cui ancora non si sa nulla, la protesta non si ferma.
L’evoluzione della protesta e l’autodeterminazione politica
Dopo che gli ultimi attacchi ai manifestanti da parte di gruppi vicini ad Amal e Hezbollah e le partecipate contro-proteste pro-Aoun del 3 novembre avevano fatto temere una deriva settaria, i manifestanti hanno pacificamente ribadito le loro rivendicazioni. Con la recente riapertura di banche e scuole e la sospensione dei blocchi stradali che avevano paralizzato il Libano nelle scorse settimane, il Paese è gradualmente tornato alla normalità.
Ad oggi la nuova strategia della piazza è quella di mettere pressione sui punti nevralgici del sistema politico con sit-in fuori ministeri e altre istituzioni legate all’apparto statale, a cui hanno preso parte anche studenti delle superiori che hanno preferito scendere in piazza piuttosto che stare dietro i banchi di scuola.
In un Paese in cui le grandi decisioni politiche sono state troppo spesso prese a Riad, Tel Aviv, Teheran e Damasco anziché a Beirut, la vera sfida del movimento di protesta libanese è quella di riappropriarsi del diritto di autodeterminazione politica. E se è lecita la scelta fatta all’inizio delle manifestazioni di rifiutare ogni bandiera politica per rivendicare l’indipendenza delle piazze, appare in questo momento necessario organizzarsi politicamente per tradurre in un risultato concreto i successi conseguiti in strada.
Senza una leadership e senza un programma politico condiviso sarà difficile sfuggire a strumentalizzazioni e narrative cospirative che rischiano di diventare, come è già è accaduto nel passato libanese, più che semplici teorie del complotto. Sono infatti le ingerenze esterne, sia regionali che internazionali, che ora rischiano di complicare ulteriormente lo scenario libanese. Tali ingerenze, calpestando le rivendicazioni indipendenti della piazza, finirebbero per riaccendere le micce settarie che per decenni hanno permesso alle élite confessionali di spartirsi la torta libanese, indebolendo le istituzioni statali e rendendo il Libano facile terreno di scontro tra le principali potenze esterne, ancora oggi in competizione per definire i futuri assetti geopolitici e di governance nel Medio Oriente allargato.