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Venti di rivolta nella repubblica islamica

Iran: proteste anti-governo, esplode malcontento popolare

21 Nov 2019 - Leone Radiconcini - Leone Radiconcini

Secondo le stime di Amnesty International, a oggi in Iran 106 persone sono state uccise e più di mille sono state arrestate in seguito alle proteste antigovernative che vanno avanti da giorni. Il governo iraniano ha infatti annunciato, il 14 novembre, una diminuzione del sussidio all’acquisto di carburante, con un conseguente aumento del costo a gallone di circa il 50%.

Tale scelta, incoraggiata dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) al fine d’uno sviluppo più sostenibile del Paese e condivisa da tutte le autorità locali (compresa la guida suprema Ali Khamenei), ha portato a forti proteste di piazza, a scontri con le forze di polizia e alla chiusura completa della connessione Internet nel Paese, nonché a blackout programmati per rallentare le manifestazioni.

Nell’attuale contesto mediorientale, in cui proteste stanno già segnando altri due Paesi a maggioranza sciita, il Libano e l’Iraq, l’Iran sta portando avanti la propria politica di repressione delle manifestazioni sia a Beirut che a Baghdad, i cui governi sono allineati con Teheran (anche se con gradazioni differenti), sia nella stessa Repubblica islamica.

Una fase di recessione
L’Iran si trova ad affrontare un periodo particolarmente arduo a livello economico e problematico a livello di relazioni internazionali. La politica di maximum pressure promossa dal presidente Usa Donald Trump sta avendo effetti molto negativi sul quadro economico del Paese. Tale politica implica un insieme di sanzioni particolarmente forti, sia dirette che indirette, che rendono molto difficile per l’Iran sviluppare (o mantenere) rapporti commerciali fruttuosi e duraturi con altri Paesi. Trump ha promosso questa azione anti-iraniana disconoscendo il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo siglato dall’Amministrazione Obama, oltre che da Grab Bretagna, Francia, Germania, Russia e Cina, e dall’Iran nel 2015, che aveva portato a una parziale normalizzazione dei rapporti e alla fine delle sanzioni imposte dal 1979.

In questo contesto, nonostante la ricchezza di materie prime a disposizione della Repubblica islamica, il Paese è in forte recessione (-4,8% del Pil nel 2018, -9,8% previsto per il 2019 secondo l’Fmi) oltre a vedere un costante aumento dell’inflazione (con i prezzi in crescita del 35% nel 2019, sempre secondo l’Fmi). A pagarne le conseguenze appaiono essere i ceti meno abbienti della società, i quali sono scesi in piazza a protestare contro le nuove misure di austerità, nonostante il forte apparato repressivo iraniano.

Una politica regionale costosa
La crisi economica che sta colpendo il Paese mediorientale non dipende però solo dalle azioni statunitensi, bensì anche dalle scelte di politica regionale promosse da Teheran. Le azioni di influenza e controllo esercitate su altri Stati sono particolarmente costose, ma offrono un grande vantaggio politico grazie al dominio esercitato su ampie fasce di territorio e sulle amministrazioni delle realtà confinanti o vicine all’Iran, centrali per esercitare influenza a livello regionale.

In particolare, il sito The Intercept e il New York Times hanno ricevuto centinaia di documenti riservati del governo iraniano da una fonte anonima, nei quali è chiaramente espressa l’influenza di Teheran sul governo iracheno.

Ugualmente l’Iran ha investito moltissimo nel dare supporto al regime di Bashar al-Assad nella guerra in Siria ed è il principale sponsor del gruppo terroristico e partito politico libanese – il giudizio varia a seconda di chi lo dà – Hezbollah sin dalla sua nascita. L’idea dell’esportazione della rivoluzione islamica nei Paesi confinanti ha fortemente influenzato le scelte internazionali di Teheran, ma a oggi questa posizione di ingerenza negli affari interni degli altri Stati della regione sta creando l’opposto di quanto voluto: un sentimento anti-iraniano diffuso in vari Paesi e particolarmente forte in Iraq, dove i manifestanti hanno anche preso d’assalto la sede del consolato iraniano a Kerbala.

Il malcontento popolare per le scelte internazionali
La politica di ingerenza è fortemente malvista anche all’interno della Repubblica islamica stessa. La popolazione si chiede per quale motivo sia necessario fare sacrifici così forti quando il governo spende miliardi nel finanziamento delle milizie sciite in Iraq, di Hezbollah in Libano, di Hamas in Palestina e in generale per tutto l’armamentario bellico necessario a mantenere una politica estera così attiva e diffusa su tutto il territorio mediorientale.

Non è la prima volta che il popolo iraniano scende in piazza contro il governo. Già nel 2009 il movimento verde era stato represso nel sangue per le sue richieste di maggiori diritti e maggiore apertura democratica. Più recentemente, nell’inverno 2017/’18, i ceti medio-bassi erano scesi in piazza per protestare contro gli aumenti del costo della vita, rendendo assai difficile per le autorità mascherare tale protesta come una richiesta velleitaria e filo-occidentale di una minoranza della popolazione.

L’intransigenza di Teheran
Anche in quel caso la repressione del regime fu dura e violenta. Sembra infatti che Teheran non sia disposta al compromesso né in Iraq – dove avrebbe inviato cecchini degli Iranian Revolutionary Guard Corps (Irgc) a sparare dai tetti sulla folla dei manifestanti – né tanto meno sul proprio territorio, dove le autorità appaiono propense a perdere enormi quantità di denaro – derivanti dalla chiusura delle connessioni Internet e dai blackout programmati – pur di evitare un espandersi o anche un semplice organizzarsi delle proteste.

In un contesto del genere non è sorprendente che la popolazione iraniana sia poco propensa ad ascoltare la retorica del regime, che incolpa di ogni problema il nemico americano e/o israeliano, e attacchi invece le autorità interne in quanto disinteressate al benessere della gente comune.

L’intransigenza delle istituzioni della Repubblica islamica ha già portato alla repressione violenta. E la chiusura dei canali di comunicazione rende le proteste meno visibili a livello internazionale e, quindi, i manifestanti più isolati e più facili da reprimere, senza che per questo Teheran riceva condanne da parte della comunità internazionale. Quanto le proteste potranno durare dipenderà dalla resistenza della popolazione alla forza vessatoria del regime teocratico dell’Iran, che certamente non appare aperto a nessun tipo di dialogo con chi manifesta.