Intelligenza artificiale: astro robot tra scienza e strategia
Nel corso dei secoli, la specie umana si è servita della tecnologia per superare gli ostacoli che incontrava sul proprio cammino innumerevoli volte, agendo con determinazione ed intelligenza. In particolare, la corsa verso lo spazio che l’homo sapiens sapiens ha intrapreso più di cinquant’anni fa presenta tutt’oggi significativi ostacoli di carattere economico e umano. Entra qui in gioco un settore tecnologico particolarmente versatile e relativamente giovane: la robotica. Che si tratti di svolgere compiti pericolosi o, come nel caso dello spazio, di raggiungere luoghi particolarmente inospitali per l’uomo, i robot si sono rivelati sostituti validi degli astronauti e, soprattutto, sacrificabili.
In funzione di questi due aspetti, un’efficace interazione tra uomo e macchina si è già sviluppata in questi ultimi anni. Ciò che avviene in maniera sempre più estensiva sul campo di battaglia con i droni, si appresta ad accadere anche nel settore spaziale con i Robonauts, cioè gli astronauti robot, o forse meglio i robot astronauti. Tuttavia, anche dietro ad un genuino desiderio di scoperta e progresso scientifico-culturale possono celarsi intenti poco pacifici più o meno evidenti, leggibili e discutibili sia in chiave politico-militare che etica.
Da Gagarin a Valkyrie
Correva il lontano 12 aprile 1961, quando il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin venne proiettato con successo fuori dall’atmosfera a bordo della Vostok 1, divenendo il primo uomo a lasciare la Terra per poi farvi ritorno. Meno di un decennio più tardi, l’Apollo 11 permise ai due astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin di raggiungere la Luna, il 21 luglio 1969.
Oggi, a cinquant’anni di distanza e nonostante i notevoli cambiamenti geo-politici, la corsa allo spazio non si è arrestata e le maggiori agenzie spaziali (Nasa ed Esa in primis) hanno fatto significativi progressi nel campo della tecnologia aerospaziale, conseguendo importanti risultati quali la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (Iss).
Una svolta radicale nell’approccio allo spazio fu data dalla Nasa nel 1996, quando decise di allargare il proprio spettro di ricerca agli astronauti stessi ed avviò il progetto Robonaut producendone un primo esemplare di robot astronauta nel 2000. Ad oggi, la robotica applicata all’aerospazio vede l’apice del suo sviluppo nel modello Valkyrie, progettato sempre sotto l’egida della Nasa e idealmente concepito per la costruzione di basi avanzate in località extraterrestri, quali la Luna e addirittura Marte.
Nello specifico, ciò che principalmente contraddistingue i Robonauts dagli altri droni sono le loro sembianze umanoidi, concepite specificamente per lo svolgimento dei compiti assegnati in genere agli operatori umani. Inoltre, gli operatori sintetici, cioè i robot, presentano dei vantaggi non trascurabili rispetto a quelli organici, cioè gli uomini. L’utilizzo di unità robotiche abbatterebbe significativamente i costi delle missioni spaziali prolungate, eliminando dall’equazione quegli approvvigionamenti essenziali per l’impiego di personale umano: cibo, acqua e ossigeno. Una volta terminata la fase di sviluppo e collaudo, queste unità semi-autonome potrebbero diventare protagoniste di importanti missioni di ricerca, esplorazione e addirittura colonizzazione, permettendo un giorno all’umanità di espandersi anche al di fuori del pianeta Terra. Ciononostante, un progetto di tale portata e ambizione solleva inevitabilmente non pochi dubbi e perplessità riguardo i suoi reali scopi.
Esplorazione o dominio?
Ripercorrendo le storie di Gagarin, Aldrin e Armstrong appare evidente come già negli Anni Sessanta il valore scientifico della corsa allo spazio fosse subordinato a quello politico, poiché entrambe le missioni non rappresentarono soltanto due distinte fasi di una più grande e pionieristica conquista dell’umanità nell’ambito del volo spaziale. L’impresa di Gagarin venne presto celebrata come una vittoria tutta sovietica, testimoniando la superiorità tecnologica dell’Urss e divenendo uno dei più grandi vanti del sistema comunista.
Seguendo una linea non dissimile, la missione di Aldrin e Armstrong, pur costituendo un “grande passo avanti per l’umanità”, come disse da quest’ultimo, si concluse di fatto con una singola bandiera piantata sulla superficie del satellite terrestre: quella degli Stati Uniti.
Da un punto di vista strategico, il ruolo dello spazio risulta invece molto più evidente in questo ultimo decennio, specialmente considerando le caratteristiche dual-use di alcune tecnologie chiave nel settore aerospaziale quali la missilistica e le comunicazioni via satellite. Una considerazione sufficientemente valida da spingere il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a creare una nuova forza armata dedicata proprio allo spazio, la Space Force. Essendo in questo caso l’intenzione di militarizzare lo spazio estremamente chiara (per quanto ancora piuttosto fantascientifica), sarebbe interessante chiedersi se il ruolo di Valkyrie e dei Robonauts non possa essere qualcosa di più di uno strumento funzionale e subordinato a giochi di potere nazionalistici ed economici più grandi.
“Andiamo!”
Stando alle dichiarazioni del presidente Trump alla riunione del National Space Council nel giugno 2018, durante la quale il ‘comandante in capo’ ribadì la necessità degli Stati Uniti di mantenere una posizione dominante nello spazio, non vi è alcuna ragione di credere che questa nuova politica spaziale del terzo millennio possa allontanarsi da quella seguita finora, che vede per molti versi gli interessi economici e strategico-militari prevalere su quelli scientifici. Tuttavia, non sarebbe corretto affermare che siano stati esclusivamente quelli a guidare la specie umana verso i numerosi traguardi raggiunti sinora.
Il desiderio di superare i limiti è sempre stato un potente motore per le azioni dell’uomo. Così come 68 anni fa la determinazione e l’entusiasmo di Gagarin lo spinsero ad avviare il decollo del Vostok 1 comandando “Poyekhali!” (Andiamo!), oggi Trump rilancia la corsa spaziale ispirandosi all’essenza del carattere americano, volto a “esplorare nuovi orizzonti e domare nuove frontiere”. Una frase specchio non solo di un popolo ma anche di una specie che, seppur determinata ed intelligente, forse dovrebbe curarsi di più della casa che già abita, prima di mandare dei suoi surrogati a cercarne o a costruirne altre.