India: Ayodhya, il sito agli Hindu, la delusione ai musulmani
Ancora una volta, Narendra Modi riesce a portare a casa un risultato, a mantenere una promessa elettorale. Alcuni mesi dopo essersi annesso il Kashmir, sei mesi dopo la sua riconferma a capo della più popolosa democrazia del Mondo, l’India, Narendra Modi ha battuto un colpo forte, grazie a una sentenza della Corte Suprema indiana per la quale il sito storico di Ayodhya appartiene agli Hindu e non ai musulmani, alla comunità islamica indiana. Una decisione che mette fine a una controversia ultra-decennale che ha causato la morte di oltre 2000 persone e che ha influenzato non poco i rapporti nel Paese tra la comunità hindu e quella musulmana.
Almeno otto secoli di contenziosi religiosi
Facciamo un passo indietro. Nella religione induista, il dio Visnu ha dieci incarnazioni, avatar, la settima delle quali è Rama. Un eroe, un grande uomo, casto e devoto alla moglie Sita, gran soldato, difensore del bene, sceso sulla terra per combattere i demoni, in particolare Ravana, come è raccontato nel poema epico Ramayana. La tradizione induista colloca la sua nascita ad Ayodhya, piccolo villaggio dello stato settentrionale indiano dell’Uttar Pradesh. Qui a lui, secondo la tradizione, sarebbe stato costruito un tempio.
All’inizio del tredicesimo secolo, viene creato in India il sultanato di Delhi, il primo governo islamico dell’India, anche se già c’era stata la presenza di insediamenti e strutture musulmane nel subcontinente.
Nel 1528, ad Ayodhya, i musulmani costruiscono la moschea di Babri, in onore dell’imperatore Moghul Babur, il fondatore e primo regnante della dinastia che governerà l’India per oltre 300 anni. Secondo gli induisti, soprattutto i nazionalisti, partendo da quanto nel 18o secolo aveva detto un maharaja del Rajasthan, per costruire la moschea sarebbe stato distrutto il tempio induista dedicato al dio Rama.
Dispute, dissacrazioni e distruzioni
Da questo momento, nascono dispute sul territorio che poi sfociano in veri e propri pogrom. La Babri Masjid viene utilizzata fino al dicembre del 1949, quando dei fondamentalisti hindu, dopo nove giorni di preghiere ininterrotte all’esterno della moschea, piazzano nel sito religioso islamico degli idoli di Rama e di sua moglie Sita, dissacrando così il luogo religioso. Per paura dei nazionalisti hindu, gli idoli non furono rimossi, nonostante le richieste dell’allora primo ministro Nehru, e la moschea venne chiusa.
Negli Anni 80 del secolo scorso, il Bjaratiya Janata Party, partito politico della destra hindu che era appena nato dalle ceneri di altri movimenti nazionalisti e che si faceva portavoce delle istanze politiche di gruppi fondamentalisti hindu, comincia a chiedere la costruzione di un tempio induista sul luogo dedicato a Rama.
Tra manifestazioni, proteste, scontri, si arriva al 6 dicembre del 1992, quando oltre 150.000 manifestanti legati alla destra nazionalista induista, condotti da leader che poi avrebbero guidato il Paese, degli Stati e il partito come Atal Bihari Vajpayee (poi premier indiano), L.K. Advani (capo del Bjp e varie volte ministro) e Uma Bharti (varie volte ministro e premier dello Stato del Madhya Pradesh), dopo alcuni giorni di preghiere, con l’utilizzo di asce, mazze, martelli e altro, abbattono la moschea.
Corsi e ricorsi, campagne e promesse
Da qui, il caos. Ricorsi giudiziari da una parte all’altra, scontri politici ma, soprattutto, una vera e propria guerra religiosa tra hindu e musulmani in diverse città del Paese, che porta alla morte di oltre 2000 persone, per la maggior parte musulmani.
Dieci anni dopo la demolizione, fu presentato un ricorso all’Alta Corte di Allahabad che, dopo otto anni, decise che il sito doveva essere diviso in tre parti, affidandone una a ciascuno dei tre contendenti: l’organizzazione islamica Waqf, il partito nazionalista di destra Hindu Mahasabha e la setta di monaci hindu Nirmohi Akhara. Un appello a questa decisione nel 2011 fece sospendere il verdetto, fino alla sentenza di oggi.
Il ruolo del premier Modi
Il tema di Ayodhya e della ricostruzione del tempio di Rama è stato sempre al centro delle campagne elettorali del Bjp, ma è stato con Modi che la questione ha ricevuto una accelerazione.
L’attuale premier, sin dalla sua prima elezione alla guida del secondo Paese più popoloso al mondo, ha chiaramente detto di volere lavorare affinché ad Ayodhya potesse tornare a splendere un tempio di Rama. E ci è riuscito ora. La decisione della Corte Suprema si basa su prove dell’ente nazionale indiano d’archeologia, l’Archaeological Survay of India, secondo il quale dopo la distruzione della moschea sono stati ritrovati i segni della presenza di manufatti induisti precedenti alla costruzione della stessa moschea, segno che il tempio a Rama non era una leggenda. Basandosi su questo, i cinque giudici hanno deciso che il sito appartiene agli induisti e che i musulmani avranno un’altra area, che dovrà essere individuata, non lontano, per ricostruire la moschea.
La decisione è stata ovviamente salutata come una vittoria da tutti i gruppi nazionalisti hindu; e lo stesso Modi non ha nascosto la sua soddisfazione, pur utilizzando toni concilianti. “Il verdetto – ha scritto in un tweet il premier indiano – non deve essere visto come una vittoria o una sconfitta da alcuno. Possano la pace e l’armonia prevalere”. Modi ha anche voluto precisare che non c’è stata alcuna forzatura sui giudici che hanno agito in maniera indipendente e trasparente.
La visione e la ricerca di un’India induista
Ma il timore che i cinque togati siano stati condizionati dalla pancia del Paese, da quello che in India sta succedendo in questo periodo, è forte. Dopotutto, lo stesso Modi non ha fatto mistero della volontà di perseguire l’hindutva, cioè di realizzare uno Stato indiano per i soli induisti, cacciando in qualsiasi modo i musulmani. Negli ultimi anni, da quando Modi è al potere, gli scontri tra le comunità e le discriminazioni nei confronti dei musulmani sono aumentate, così come gli atti violenti. Ayodhya è soltanto l’ultimo passo, che ha avuto nell’annessione di fatto del Kashmir, a maggioranza islamica, un altro esempio di questa volontà di Modi e del suo partito di annullare i non hindu nel Paese.
Modi, nei suoi anni di politica in Gujarat, sia come esponente del Bjp che come capo del governo locale, è stato avvicinato anche a scandali e crimini contro i musulmani. Nel 2002 ad Ahmedabad estremisti indù massacrarono quasi 70 persone, in maggioranza musulmani, e Modi fu incriminato di esserne il mandante (e fu poi assolto al termine di un’indagine che lasciò molti dubbi). In quell’anno in Gujarat, dove Narendra Modi era premier, ci furono molti massacri da parte dei fondamentalisti indù contro i musulmani, come l’incendio di una panetteria a Vadodara nel quale morirono 14 persone, delle quali 11 musulmani.
Le preoccupazioni che ci possano essere scontri, è alta. La città di Ayodhya è stata chiusa dalla polizia sin da ieri e sono stati rafforzati i controlli.