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Proteste ed elezioni distrettuali

Hong Kong: erosione dell’autonomia e attendismo cinese

24 Nov 2019 - Rodolfo Bastianelli - Rodolfo Bastianelli

Iniziate con l’obiettivo di far ritirare la contestata legge sull’estradizione proposta dal capo dell’esecutivo locale Carrie Lam, le manifestazioni che da cinque mesi si svolgono ad Hong Kong hanno cause che vanno oltre il contestato provvedimento, ed una delle più rilevanti è la percezione che Pechino stia intromettendosi in maniera sempre più evidente negli affari interni dell’ex colonia britannica e che la libertà e l’autonomia di cui Hong Kong gode vadano progressivamente assottigliandosi.

Intanto, il successo a valanga delle forze democratiche nelle partecipatissime elezioni distrettuali di domenica 24 novembre, sulla scia delle proteste di piazza iniziate a giugno, ha inviato un segnale inequivocabile tanto all’establishment di Hong Kong quanto a Pechino.

La realtà dietro la riforma dell’estradizione
In merito alla “Fugitive Offenders Ordinance” che dovrebbe riordinare le procedure di estradizione, va ricordato come attualmente Hong Kong ha trattati di estradizione con venti Paesi, tra i quali il Regno Unito e gli Stati Uniti, ma non con la Cina, in quanto, nella precedente versione approvata dal Consiglio legislativo nel marzo 1997, l’estradizione non veniva contemplata dato che l’apparato giudiziario cinese non rispondeva agli standard internazionali. Al contrario, stando alla nuova legge proposta dal governo, l’estradizione verrebbe invece consentita anche in Cina, Taiwan, Macao ed in Paesi con i quali Hong Kong non ha concluso accordi in materia, ma – cosa ancora più significativa -, anche se la richiesta sarebbe valutata dalle corti locali, la decisione definitiva spetterebbe al capo dell’esecutivo, aspetto che di fatto darebbe al procedimento un profilo squisitamente politico.

Ed in questo modo, affermano i partiti di opposizione, le associazioni legali e gli ambienti imprenditoriali che hanno fin dall’inizio criticato il provvedimento sottolineando come il sistema giudiziario cinese non offra alcuna garanzia di equità ed imparzialità, Pechino potrebbe avanzare una richiesta di estradizione anche per motivi di carattere politico ed economico e non solo per reati comuni.

Dall’istruzione alla bandiera, le ingerenze di Pechino
In questo quadro, le manifestazioni si sono progressivamente trasformate in una protesta contro l’esecutivo locale ed il regime cinese. Come è stato però ricordato in un rapporto preparato dal “Congressional Research Service” di Washington il 16 agosto, le ragioni del malcontento tuttavia non poggiano più esclusivamente sull’introduzione della nuova legge sull’estradizione, ma risiedono in altre problematiche che da tempo erano latenti, quali appunto la progressiva erosione dell’autonomia di Hong Kong e la sempre più marcata ingerenza cinese nella società, come dimostrato dalla riforma sull’istruzione che ha reso obbligatorio l’insegnamento del mandarino nelle scuole – quando gli hongkonghesi parlano invece il cantonese – unitamente alla richiesta avanzata dal governo di Pechino alle autorità di Hong Kong di introdurre una legge che proibisca “la mancanza di rispetto” nei confronti della bandiera e dell’inno nazionale cinese.

Si deve poi aggiungere anche l’accordo siglato dal governo locale con Pechino che consente ogni giorno a centocinquanta cittadini cinesi di stabilirsi ad Hong Kong con un visto permanente, una misura vista come un tentativo di alterare l’assetto sociale e culturale esistente nel territorio, mentre infine viene evidenziato come lo stesso indice Hang Seng della borsa locale sia composto ormai per la maggior parte da società cinesi.

In questo contesto, davanti alle proteste, la risposta delle autorità e del capo dell’esecutivo Carrie Lam è stata alquanto ambigua. Se da una parte il 4 settembre annunciava che il contestato provvedimento sull’estradizione sarebbe stato ritirato – decisione poi formalmente presa il 23 ottobre – , dall’altro ipotizzava che nel caso di un inasprimento delle proteste, le autorità avrebbero applicato le disposizioni di emergenza previste dalla “Emergency Regulations Ordinance”, una misura che consentirebbe al governo di imporre la censura, sequestrare proprietà private ed alla polizia di procedere ad arresti senza incontrare limitazioni, ma che, potrebbe, paradossalmente, ottenere l’effetto opposto rispetto a quanto auspicato dagli esponenti del governo locale finendo per rafforzare il movimento di protesta.

E con un’azione delle forze politiche rimasta quantomai incerta, uno degli obiettivi principali è divenuta la polizia di Hong Kong, la cui dura risposta alle proteste, unita agli errori nella gestione delle dimostrazioni, ha finito per rendere un’istituzione che godeva di un alto tasso di approvazione tra la popolazione in una tra le più criticate se non addirittura disprezzate, come dimostrano le accuse di incapacità nel distinguere tra manifestanti pacifici e violenti e di collusione con membri della criminalità organizzata cinese, alcuni dei quali si sarebbero anche resi responsabili di attacchi contro i dimostranti.

La prudenza del Dragone e i rischi dell’uso della forza
Ma se la risposta delle autorità di Hong Kong è stata caratterizzata dall’indecisione, quella di Pechino è stata finora improntata alla prudenza ed all’attesa di vedere quale indirizzo possano prendere gli eventi. Come sottolineato da diversi commentatori, la linea di Pechino è stata dettata dall’auspicio che le manifestazioni si sarebbero progressivamente dissolte in maniera spontanea, come avvenuto cinque anni fa con le proteste del movimento degli Ombrelli. In un’analisi apparsa su Foreign Affairs lo scorso 30 settembre, si sostiene infatti come la linea attendista assunta dal governo di Pechino davanti agli eventi di Hong Kong sia stata dettata principalmente dalla convinzione che non solo il mondo economico e finanziario – a cui il regime cinese in questi anni ha offerto sostanziali vantaggi – sia contrario alle proteste, ma che anche gran parte dei cittadini hongkonghesi guardi con poca simpatia alle proteste, sia perché sfavorevoli a cambiamenti radicali del sistema ma pure per i disagi provocati dalle manifestazioni.

Tuttavia, se il regime cinese seguisse una linea moderata nei confronti dei manifestanti, questo potrebbe essere paradossalmente inteso come un segnale di debolezza da parte del presidente Xi Jinping che, al contrario, proprio sulla fermezza contro i separatismi e l’enfasi sul nazionalismo ha costruito il suo successo personale. Secondo i dirigenti di Pechino infatti, se le proteste ad Hong Kong non venissero fermate e l’apparato di sicurezza cinese mostrasse la sua incapacità a farvi fronte, queste in futuro potrebbero espandersi anche alla Cina.

Ma ben più rilevanti potrebbero essere le conseguenze nel caso Pechino decidesse di intervenire militarmente ad Hong per porre fine alle dimostrazioni. In questo caso, la Cina si ritroverebbe spinta ai margini della comunità internazionale come dopo le proteste del 1989 e, cosa forse ancora peggiore, con la politica del soft power utilizzata in questi anni per conquistare l’appoggio dei vari Paesi attraverso le partnership commerciali e l’assistenza economica e tecnica resa inutilizzabile proprio da un ritorno all’immagine di uno Stato capace solo di usare la forza. E non meno serie sarebbero le ripercussioni di carattere economico.

Un intervento militare cinese non solo metterebbe a rischio la fiducia che gli investitori internazionali hanno nel sistema finanziario di Hong Kong, ma danneggerebbe anche le compagnie del Dragone che si appoggiano sul mercato della ex colonia britannica per la raccolta dei capitali, senza contare come molti gruppi stranieri molto probabilmente lascerebbero il territorio. Ma non tutti ritengono che un eventuale intervento militare cinese avrebbe conseguenze tanto significative per Pechino. Stando ad un’analisi dell’International Institute of Strategic Studies (Iiss), apparsa lo scorso Agosto su Strategic Comments, i dirigenti cinesi sanno probabilmente che gli effetti sarebbero molto meno significativi rispetto al 1989, dato il crescente numero di Paesi che dipendono economicamente e commercialmente da Pechino. Il livello degli scontri sembra in questi ultimi giorni però essersi alzato di tono, tanto che il Quotidiano del Popolo, in un suo editoriale apparso il 4 novembre, ha affermato come fosse ormai opportuno ricorrere ad una linea più dura per ristabilire l’ordine. La soluzione appare quindi ancora molto lontana.

Foto di copertina © Keith Tsuji/ZUMA Wire