Germania: i dieci punti di Kohl e l’accelerazione della storia
La rapida riunificazione della Germania, nelle rievocazioni della caduta del Muro, è stata spesso presentata come un fatto scontato sin da quel 9 novembre 1989 (non è falso, ma è una semplificazione) o addirittura una prospettiva ineluttabile sin dal lancio della Perestrojka (il che è più che discutibile). In tal modo si minimizza il ruolo propulsivo, anzi dirompente, svolto nel 1989/’90 da due personalità, il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente statunitense George Bush senior, come pure il vivace dibattito che si scatenò fra i principali leaders europei e in seno al mondo politico di Bonn.
Ancora nella primavera del 1988 i principali consiglieri di Kohl, fra cui Wolfgang Schaeuble – oggi presidente del Bundestag -, gli avevano suggerito di togliere la parola ‘riunificazione’ dal programma del partito Cdu: rinunciare alla rivendicazione, comunque irrealistica, dell’unificazione territoriale consentiva di incoraggiare la Repubblica democratica tedesca (Ddr) ad adottare una linea riformista secondo il modello polacco. Lo stesso cancelliere, in occasione di una visita a Mosca nell’ottobre 1988, evocò la riunificazione come un traguardo a lunghissimo termine: indicarne i tempi è roba da fantascienza.
L’occasione di Bush
Chi per primo aveva deciso di cogliere al balzo, per dare uno scossone all’impero sovietico, la palla del nuovo corso annunciato da Mikhail Gorbaciòv alle Nazioni Unite alla fine del 1988 è il presidente Bush. Nel febbraio 1989 aveva specificato che il suo motto ‘Europe whole and free‘ significava libere elezioni e libertà di movimento per i popoli dell’Europa orientale compresi i tedeschi dell’Est; ma era consapevole che occorreva evitare passi falsi suscettibili di destabilizzare quei governi e provocare reazioni violente di Mosca.
E non aveva parlato di riunificazione. Ne parlò nei mesi successivi con i suoi collaboratori, vincendo le titubanze del Dipartimento di Stato e del suo consigliere Brent Scowcroft, il quale proponeva il più blando termine di ‘riconciliazione’. In maggio, a Magonza, auspicò l’eliminazione della cortina di ferro, “a cominciare da Berlino”. Nel 1987 Ronald Reagan, con il suo stile più rude, aveva esclamato: “Signor Gorbaciòv, butti giù quel muro!”.
Lungimiranza di Kohl e timori di Gorbaciòv
Nei giorni che seguirono l’apertura dei varchi fra le due Berlino furono in pochi a pronosticare che la Ddr avesse i giorni contati. Helmut Kohl fu subito consapevole dell’occasione storica che inaspettatamente gli si offriva, potendo far leva sulle critiche condizioni economiche e finanziarie in cui si dibatteva la Ddr (e anche l’Urss), ma per il momento si guardò bene dal parlare di riunificazione come di un programma concreto; il 16 novembre accennò a questa più ambiziosa finalità, ma usando un termine meno dirompente: autodeterminazione. Tre giorni dopo in una manifestazione a Lipsia risuonò lo slogan ‘siamo un (unico) popolo’.
Gorbaciòv e Egon Krenz, il nuovo leader tedesco-orientale, vedevano chiaramente il pericolo che Bonn approfittasse di quella loro debolezza e si raccomandavano a tutti gli interlocutori occidentali perché si evitassero iniziative destabilizzatrici. Inizialmente Kohl assicurò che non aveva alcuna intenzione di destabilizzare la Ddr (una specie di ‘Mikhail, stai sereno’).
Il presidente sovietico chiese anche la convocazione di un vertice quadripartito, ma senza successo. Se un anno prima aveva definito la divisione della Germania una decisione irreversibile della storia, ora ammetteva la possibilità di una riunificazione attraverso un ordinato processo di avvicinamento fra i due Stati e di integrazione fra l’Europa orientale e quella occidentale, che sarebbe durata vari decenni. Ma a medio termine, al centro della ‘casa comune europea’ dovevano coesistere, cooperando strettamente, due Stati tedeschi con valori comuni e sistemi socio-politici diversi; e ciascuno nella propria alleanza militare.
Malcontento di Andreotti, Thatcher e Mitterrand
Analoga era la visione dei socialisti tedeschi, solidali con i riformatori dell’Est e preoccupati per la tenuta di Gorbaciòv. La stessa preoccupazione nutrivano i governi francese e britannico, nonché il nostro presidente del consiglio Giulio Andreotti; inoltre, temevano che una Germania ingrandita e liberata dall’ipoteca della divisione potesse modificare gli equilibri europei, ritrovare ambizioni egemoniche ed eventualmente scivolare verso il neutralismo. Washington condivideva solo l’ultima di queste preoccupazioni: incoraggiava Kohl a procedere senza esitazioni, ma senza fare concessioni circa l’appartenenza alla Nato.
Londra e Parigi si appellavano ai loro diritti su ‘Berlino e la Germania nel suo insieme’ in base agli accordi quadripartiti, che risalivano al 1945 ma erano stati ribaditi nel 1971. Margaret Thatcher raccomandava a Bush di fare il possibile per frenare Kohl e aiutare Gorbaciov a mantenere saldo il Patto di Varsavia. Mitterrand, ancora in maggio, aveva detto a Bush che se Bonn si fosse lanciata nell’avventura della riunificazione si rischiava una guerra; ora si mostrava un po’ meno allarmista e puntava sul rafforzamento dell’integrazione europea come contrappeso.
Il Piano dei dieci punti
Alla fine di novembre questi temi formarono oggetto, a Berlino, di uno scambio di idee fra esperti e capi degli uffici di policy planning dei Ministeri degli Esteri di alcuni Paesi occidentali. Per due giorni avevamo esaminato le possibili modalità di avvicinamento fra i due Stati tedeschi e gli eventuali condizionamenti esterni. Il terzo e ultimo giorno, era il 28 novembre, tutto apparve superato dalla notizia del programma in dieci punti che Kohl stava annunciando al Bundestag. Tutti furono presi alla sprovvista, anche i diplomatici tedeschi e, pare, lo stesso ministro Hans-Dietrich Genscher.
I dieci punti indicavano con precisione il percorso che in effetti sarebbe poi stato seguito, senza lasciar presagire la sua rapidità. I primi cinque concernevano direttamente i rapporti inter-tedeschi e la democratizzazione della Ddr; e il quinto si spingeva a prevedere “strutture confederative, in vista di una successiva federazione” . Gli altri cinque riguardavano la necessaria cornice costituita dai rapporti Est-Ovest (accordi di disarmo, Csce ecc.) e culminavano in un “nuovo ordine di pace che permetterà l’unificazione statale della Germania”.
Cadeva dunque un tabù (federazione, unificazione) e senza menzionare i diritti delle quattro potenze. Fu – oggi sembrerà strano – uno choc; eppure anche il decimo punto restava ben al di sotto di quella che sarebbe stata la realtà dieci mesi dopo: presupposto dell’unificazione doveva essere il nuovo ordine europeo imperniato su “strutture di sicurezza trans-nazionali”, cioè il mitico sistema di sicurezza collettiva destinato a soppiantare la Nato e il Patto di Varsavia. E quindi si poteva pensare a tempi lunghi.
In quei giorni Kohl prospettava un processo della durata di 5-10 anni (un lasso troppo breve, protestava Mitterrand). Ma a questo punto aveva già deciso di travolgere il prudente riformismo del nuovo premier della Ddr, Hans Modrow, e anche la ‘terza via’ degli ex-dissidenti riuniti nella ‘Tavola Rotonda’, e puntare invece su una vittoria elettorale della Cdu orientale, grazie a generosi incentivi economici. Era il brusco abbandono del metodo della Ostpolitik – ‘Wandel durch Annaeherung‘, trasformazione attraverso l’avvicinamento – ideato negli anni sessanta da Egon Bahr, adottato da Willy Brandt e fatto proprio da tutto l’Occidente nei negoziati culminati nel vertice di Helsinki nel 1975.