Gb/Usa: Brexit e altro, Johnson e Trump e il chicken game
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il premier britannico Boris Johnson parlano spesso di una nuova special relationship, all’interno di una comunità euroatlantica dove si parli solo inglese. Trump ritiene possa essere utile al suo disegno di scardinare l’Unione europea con la Brexit; a Johnson potrebbe servire ad indorare il destino da maxi-Singapore che attenderà il Paese, se alla fin fine finirà fuori dall’Ue. C’è molto twitter e chicken game nelle argomentazioni di due personaggi entrambi nei guai e – checché ne pensi Johnson, che si illude di essere Hulk – il rapporto fra una grande potenza globale e una media potenza europea resta fortemente asimmetrico.
L’approccio ‘commerciale’ di Trump
Trump guarda al mondo con l’approccio del buon venditore (quale è): ad aperture allettanti fa seguire improvvisi passi indietro, modifiche e rilanci, con una girandola di mosse a sorpresa che mirano a individuare il compromesso ottimale su cui chiudere a suo vantaggio. L’alternanza fra toni blandi e minacce apocalittiche segue la linea della sua percezione del punto di svolta/equilibrio possibile: più articolata con la Cina e la Corea del Nord, più dura con l’Europa e l’Iran, a mo’ di doccia scozzese con la Russia del presidente Vladimir Putin.
E’ una tattica transactional che gioca strumentalmente su una imprevedibilità di cui la componente irrazionale sembra, in parte non secondaria, costruita in vitro: gli ha permesso di accumulare sul piano personale una fortuna impermeabile a inchieste e fallimenti. Ma, quando dalla dimensione commerciale si passa al rapporto fra Stati, le cose cambiano: qui, i parametri della convenienza economica valgono fino a un certo punto e ne entrano in gioco altri – politici, identitari, di status – che rispondono a sollecitazioni e hanno punti di rottura diversi.
Le considerazioni di mercato contano eccome, nella loro accezione più ampia, per il dittatore nordcoreano Kim Jong Un, per il presidente cinese Xi Jinping e per l’Ue, ma non sono il solo elemento: il presidente Usa sembra avere difficoltà ad accettare questo fatto e la sua erraticità, aumentata da una emotività e da un ego fuori misura, rischia di andare pericolosamente fuori controllo.
Se per il Trump venditore capire il punto dove fermarsi è chiaro, per il Trump presidente un gioco dalle regole diverse da quelle che immagina rende più difficile individuare il compromesso ottimale e avvicina la possibilità dell’errore decisivo. Sinora, i checks and balances della democrazia americana hanno complessivamente retto all’urto, ma in tempi di impeachment e di prospettive elettorali via via meno sicure, resta da capire quanto riusciranno ancora a farlo.
La teoria dei giochi di Boris Johnson
Per inseguire l’illusione di una Gran Bretagna che dispiega ancora una volta verso il mondo le sue vele corsare e si libera dell’Europa, Boris Johnson ha applicato alla Brexit le regole del chicken game (‘gioco del pollo’), la teoria dei giochi teorizzata da John Nash, spesso citata ai tempi della Guerra Fredda e della distruzione mutua assicurata (Mad) e che deve il suo nome a un famoso film con James Dean (‘Il ribelle’). Essa postula che due avversari seguano una linea di scontro frontale sino a quando uno dei due accetti di diventare chicken (‘pavido’) e abbandoni il campo al vincitore: l’obiettivo non è il compromesso, ma la resa dell’avversario o la distruzione di entrambi. Nel caso in cui nessuno dei due ceda in tempo utile, il disastro è inevitabile.
Applicando le regole del chicken game alla politica interna, Johnson ha puntato a forzare la mano del Parlamento, a sfidare la magistratura e a giocare con le prerogative della Corona. L’espulsione dal partito conservatore a freddo di personaggi come Kenneth Clark e Nicholas Soames ne è stata un esempio classico; è stato un po’ come se ai tempi della nostra prima Repubblica Amintore Fanfani avesse deciso di espellere d’autorità Aldo Moro e Giulio Andreotti dalla Democrazia Cristiana.
Il nodo gordiano della Brexit
Nei confronti dell’Ue, ha puntato a spiazzare gli avversari giocando sulle loro contraddizioni interne, con quel fondo di arroganza che ha spinto sino all’ultimo Londra a pensare di avere le carte in mano per portare gli altri ad accedere alle sue richieste. Le cose non sono andate come pensava. La Corte Suprema gli ha inferto una dura lezione e Johnson ha sottovalutato la reazione di un’opinione pubblica esasperata, da un lato dalle lungaggini di una Brexit senza fine, più volte annunciata e sempre bloccata, e che dall’altro comincia a temere un salto nel vuoto di cui nessuno le aveva veramente parlato.
Johnson non ha avuto così altra risorsa che spostarsi sul terreno delle elezioni, con il rischio di trasformare il suo partito in una ridotta iper-nazionalista, esclusivamente ‘inglese’, e di dare per la prima volta forma concreta allo spettro di una fuoriuscita dell’Irlanda del Nord, della Scozia e forse anche del Galles.
Nei confronti dell’Unione europea lo spezzettamento del fronte dei Ventisette, perseguito con una tenacia pari a una ottusità che ha sorpreso i molti che avevano sin qui attribuito alla Gran Bretagna una superiore abilità negoziale, non è riuscito. Londra, per cui l’Ue è stata e resta soprattutto una questione di mercato, non riesce a fare i conti col fatto che essa rappresenta per i suoi membri, al di là di differenze e contrasti anche profondi, un valore politico preminente.
È questo che ha consentito all’Ue di salvaguardare una posizione unitaria e ha fatto sì che persino i presidenti ungherese e polacco, Viktor Orbán e Andrzej Duda, abbiano compreso che contestarla va bene, ma è fondamentale farlo restandone all’interno, anziché cedere alle lusinghe di chi vorrebbe smontarla dall’esterno.
Prospettive future del chicken game
Johnson sembra vicino a un esito disastroso del suo chicken game, stretto fra la sfida di un no-deal, respinto dai Comuni, l’irritazione crescente degli europei, pungolati dal presidente francese Emmanuel Macron, e l’esito incerto di elezioni che potrebbero produrre ancora una volta un Parlamento bloccato. Rischia di essere ricordato come il primo ministro dal mandato più breve della storia britannica e al tempo stesso come colui che ha innescato il declino accelerato di Paese cui era stato promesso il contrario.
Non è detto che sarà necessariamente così. Johnson può contare sulla stolidità di Jeremy Corbyn e sulle divisioni dei suoi avversari interni, mentre la preoccupazione crescente degli europei che un no-deal avrebbe ripercussioni più serie del previsto anche per loro potrebbe portare a flessibilità dell’ultima ora. Ora che il chicken game entra nella sua fase finale, qualsiasi previsione sarebbe, in ogni caso, azzardata.