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Viaggio in Thailandia e Giappone

Papa Francesco: un pivot asiatico in salsa vaticana

28 Nov 2019 - Pietro Mattonai - Pietro Mattonai

Il trentaduesimo viaggio apostolico di papa Francesco ha riportato il pontefice in Estremo Oriente. L’ultima visita di Jorge Mario Bergoglio a queste latitudini risaliva a quasi due anni fa, quando il capo della Chiesa cattolica si recò prima in Myanmar e poi in Bangladesh. Un’assenza prolungata, soprattutto se si considera l’interesse e la rilevanza del continente asiatico per l’attività diplomatica vaticana (si pensi, a tal riguardo, alla stipula dell’accordo con il governo di Pechino per la nomina dei vescovi in Cina).

Stavolta, la visita ha riguardato Thailandia e Giappone. Due Paesi dove la presenza di cattolici è assai ridotta: in Thailandia, i seguaci di Pietro sono poco meno di 400mila su quasi 65 milioni di abitanti, mentre in Giappone sono più di 500mila sui circa centotrenta milioni di abitanti. Ma se nel cuore della cristianità, l’Europa, il tasso di crescita della popolazione cattolica tra il 2010 e il 2017 raggiunge il suo valore minimo (+0,3%), nel Far East si registra il secondo dato più alto a livello mondiale (+11,2%) inferiore solamente a quello del continente africano (+26,1%). Numeri che spiegano bene le ragioni del Pivot to Asia in salsa vaticana.

Dialogo interreligioso come perno delle relazioni internazionali
Il viaggio, in concreto, ha dato l’opportunità a papa Francesco di ribadire alcuni dei pilastri fondamentali della sua concezione (geo)politica e (geo)religiosa. A Bangkok, l’incontro con il patriarca supremo dei buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, ha assunto i tratti della naturale prosecuzione del processo avviato da Bergoglio all’università di al-Azhar del Cairo nel 2017 con l’imam Ahmed al Tayyib per l’avanzamento del dialogo interreligioso. In Giappone, invece, il pontefice, visitando Hiroshima e Nagasaki, ha ribadito la necessità – e la possibilità – di costruire una pace sostenibile, non fondata sulla dissuasione reciproca e libera dalle armi nucleari.

Esattamente come nei vertici con l’imam Ahmed al Tayyib, papa Francesco, incontrando il patriarca buddista, ha sottolineato l’importanza delle religioni nella promozione della pace mondiale.

Per chi aveva pensato di poter finalmente espungere il fattore religioso dall’analisi delle relazioni internazionali, la caduta del muro di Berlino – della quale, in questo novembre, si celebra il trentennale – ha rappresentato un vero e proprio trauma. L’approccio realista alle questioni internazionali, che ha dominato la letteratura delle stesse, ha messo ai margini per decenni gli elementi immateriali. Quando, però, la storia – che qualcuno aveva dato per finita con il trionfo delle liberaldemocrazie – ha fatto nuovamente capolino, non più congelata dal conflitto tra Washington e Mosca, lo studio delle religioni nelle relazioni internazionali è tornato ad avere una certa rilevanza.

Religioni e carattere transnazionale
Papa Francesco, in un simile contesto, cerca di attuare un passaggio ulteriore. Le religioni, da oggetto delle relazioni internazionali, possono e devono farsi soggetto: il dialogo tra le fedi è in grado, per il pontefice, di costruire una narrazione alternativa a quella convenzionale.

Del resto, le religioni sono per loro natura post-westfaliane: non fanno riferimento ad una collettività delimitata da confini geografici e accomunate da tradizioni linguistiche, bensì a comunità transnazionali che condividono una fede. Proprio con queste ultime, il pontefice argentino si propone di dialogare, creando un rapporto indipendente rispetto a quello, classico, tra Stato e Stato.

Santa sede e disarmo nucleare
Nel Giappone dei kakure kirishitan (i “cristiani nascosti”), Bergoglio ha affrontato in particolare il tema della pace sostenibile. Un argomento sul quale la diplomazia vaticana ha insistito molto anche in Corea del Sud. Non un caso, ovviamente: il concetto di pace sostenibile è diametralmente opposto a quello – preminente – dell’equilibrio di potenza, altra formula di tradizione realista che descrive una situazione in cui la guerra è più sconveniente della pace.

Una situazione in cui, dunque, la guerra non è eliminata dalle opzioni sul tavolo, bensì è solamente la più costosa. Principio sul quale si fonda la deterrenza nucleare, sulla quale papa Francesco, poco più di un anno dopo la sua elezione, si espresse in maniera chiara: la minaccia della sicura distruzione reciproca non può essere la base per una pacifica convivenza dei popoli.

Ad Hiroshima e Nagasaki, località giapponesi che per prime hanno conosciuto la spaventosa violenza della bomba nucleare, Bergoglio ha ribadito l’obiettivo della Santa sede al riguardo: l’eliminazione della proliferazione delle armi nucleari. Una lezione, questa, che il pontefice ha appreso direttamente dall’enciclica del 1963 di Giovanni XXIII – la Pacem in Terris – che, nelle relazioni internazionali, ha inserito il concetto di mondialità tanto caro a papa Francesco. Immigrazione e cambiamento climatico, disarmo nucleare e dialogo interreligioso: temi transnazionali che devono essere affrontati in modo globale. Pena la loro impossibile risoluzione.

Foto di copertina © Ramiro Agustin Vargas Tabares/ZUMA Wire