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Sarajevo fra Ue e Nato

Bosnia-Erzegovina: le incompiute 24 anni dopo Dayton

24 Nov 2019 - Michele Collazzo - Michele Collazzo

Il 19 novembre scorso, la presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina, dopo quasi tredici mesi di stallo, ha finalmente trovato un accordo per la nomina del nuovo primo ministro. Il 58enne Zoran Tegeltija, ex ministro delle Finanze della Republika Srpska (Rs) ed esponente del partito del presidente Milorad Dodik, dovrà adottare un difficile programma di riforme che ha come obiettivo primario quello di affrontare la causa stessa del blocco istituzionale durato più di un anno e l’accordo con la Nato per avviare i negoziati per il futuro accesso del Paese balcanico nell’Alleanza atlantica. Nonostante la presunta approvazione del documento da parte della delegazione Nato in Bosnia-Erzegovina, i leader della Rs continuano ad opporsi a qualsiasi ipotesi di accordo, ricordando che la Republika Srpska (l’entità bosniaca a maggioranza serba) non ha intenzione di intraprendere il percorso di integrazione nell’Alleanza.

Tali avvenimenti fanno presagire che l’affannoso processo di adesione della Bosnia-Erzegovina alla Nato, così come quello all’Unione europea, continuerà ad essere caratterizzato dal continuo impantanarsi della situazione politica interna.

Con la memoria agli accordi di pace
Le cause principali vanno ricercate nella stessa Costituzione bosniaca e quindi negli accordi di Dayton del 1° novembre 1995, quando il presidente serbo Slobodan Milošević, quello bosniaco Alija Izetbegović e quello croato Franjo Tuđman si incontrarono, sotto l’auspicio degli Stati Uniti, nella base militare di Dayton in Ohio per porre fine ad uno dei peggiori massacri avvenuti sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale.

Le basi dell’incontro furono subito chiarite quando l’allora segretario di Stato statunitense Warren Christopher fissò i quattro punti fondamentali dei futuri accordi di pace: 1) riconoscimento della Repubblica bosniaca come Stato sovrano, articolato in due entità (serba e bosniaco-croata); 2) elaborazione di uno statuto speciale per Sarajevo, capitale comune; 3) difesa dei diritti dell’uomo; 4) processo per coloro che negli ultimi tre anni si erano macchiati di crimini di guerra.

Le trattative si protrassero sino al 21 novembre successivo, quando l’accordo fu approvato.  Il primo documento, oltre a definire gli impegni che le parti erano tenute ad assumere per la cessazione del conflitto e a specificare i principi che avevano portato alla stesura completa dell’accordo, poneva due fondamentali ed innovativi principi, tra cui l’obbligo di cooperazione per le inchieste e i processi sui crimini di guerra e il riconoscimento reciproco con l’allora Repubblica federale jugoslava (in seguito Serbia). Nonostante essi manifestino un’evoluzione fondamentale nelle relazioni tra i due Stati, tuttavia tali enunciati restavano al livello di mera dichiarazione.

Secondo punto fondamentale dell’accordo fu la linea di demarcazione tra le due entità (Inter-Entity Boundary Line – IEBL). Essendo il frutto di difficili negoziati tra Republika e Federazione, i negoziatori di Dayton definirono la IEBL come semplice delimitazione amministrativa per evitare qualsiasi rivendicazione nazionalista.

La parte più delicata probabilmente riguardava l’assetto istituzionale. È bene ricordare che gli accordi di Dayton rappresentano un unicum, giacché i principi della Costituzione sono stabiliti da negoziatori esterni. In questo senso, quindi, il quarto allegato evidenzia l’erosione della supremazia del principio di sovranità nazionale: la Costituzione, predisposta da esperti di diversa nazionalità non può dirsi espressione della volontà del popolo bosniaco. Essa disegna uno Stato unitario, con frontiere internazionali riconosciute e istituzioni centrali, ma composto di due entità, e tre comunità costituenti, dotate di ampi poteri amministrativi e politici.

La specificità del caso bosniaco
Il problema principale, che negli anni a venire metterà a dura prova la stabilità delle istituzioni bosniache, è rappresentato dalla ripartizione dei poteri tra le istituzioni comuni e quelle dei due soggetti autonomi. Il decentramento è estremamente elevato, essendo affidata alle entità una forte autonomia in ambiti delicatissimi quali la difesa e le forze di polizia e, ancora, nell’intessere relazioni speciali con gli Stati vicini. Malgrado la loro natura non-statuale, in entrambe le entità sono state create strutture istituzionali che assomigliano a vere strutture statali (la presidenza, il governo, organi legislativi e giurisdizionali).

Le competenze delle istituzioni centrali si limitano conseguentemente alla politica estera (ma non ai rapporti con gli Stati confinanti), al commercio estero, alla politica doganale, alla politica monetaria, alla gestione dei movimenti di popolazione e alla regolamentazione delle comunicazioni e dei trasporti. Tutte le altre funzioni e competenze sono soggette a negoziati fra le due entità, le quali sono perfino responsabili del bilancio delle istituzioni statali (la Rs nella misura di un terzo, la FBiH nella misura di due terzi), determinando così la totale dipendenza politica ed economica del governo centrale.

Tale impianto, che sancisce il legame tra territorio e comunità etnica, finisce con il creare un sistema politico, istituzionale ed elettorale fondato su logiche etno-territoriali. Il principio è reso ancora più penetrante per la previsione di una presidenza tricefala, composta da un bosniaco e un croato, ognuno direttamente eletto dalla Federazione, e un serbo direttamente eletto dal territorio della Republika Srpska. La sovranità cessa di appartenere all’individuo per trovare il suo punto di riferimento nell’appartenenza ad un gruppo o ad un territorio.

Un cenno merita infine la Corte Costituzionale, alla quale è demandato non solo il rispetto della Costituzione ma anche di risolvere “qualsiasi disputa che sorge a causa di questa Costituzione tra le entità o tra la Bosnia e l’Erzegovina, o anche tra le istituzioni della Bosnia-Erzegovina”. La Corte, organo di chiusura del sistema, è composta da nove giudici: sei bosniaci, di cui due nominati dal Parlamento della Rs e quattro dalla FBiH, e tre giudici internazionali. Ad affiancarla, fu istituita la figura dell’Alto Rappresentante della comunità, al quale furono affidati compiti di monitoraggio, coordinamento, interpretazione definitiva e promozione attiva dell’accordo di pace nel suo complesso.

La guerra terminava così fra dubbi e incertezze. Gli accordi di Dayton avevano messo la parola fine ad un conflitto che sembrava dovesse durare in eterno, ma lasciavano dietro di loro una lunga scia di malumori. Inoltre, marcarono il completo fallimento dell’Europa nella gestione della crisi, reso evidente dal ruolo al quale furono relegati gli attori dell’Unione europea nei colloqui di pace da parte degli Stati Uniti, forti di numerosi successi diplomatici.

Uno sguardo al futuro
Dall’accordo di pace, la Bosnia-Erzegovina ha geneticamente ereditato un federalismo ‘etnico’ orientato più a garantire l’autonomia delle unità costitutive che l’integrazione o l’efficienza dello Stato federale. Ciò pone tuttora la Bosnia-Erzegovina in una situazione di stallo continuo, sia per quanto riguarda la politica interna che per quella estera, sottoposta quest’ultima alle costanti pressioni esterne anche di paesi come Russia e Cina.

L’immobilismo pone Sarajevo in una situazione d’incapacità politica che non permette di creare politiche strutturali di lungo periodo che possano garantire la crescita, né rispettare i cosiddetti criteri di Copenaghen per l’adesione all’Unione europea. Il processo d’integrazione europeo è reso ancor più difficile, oggi, dal recente rifiuto del Consiglio europeo, su traino della Francia, di avviare i negoziati per l’adesione con Macedonia del Nord e Albania e dal successivo annuncio di voler riformare il sistema d’integrazione europeo con regole più stringenti (seven steps) da parte del presidente Emmanuel Macron.

Foto di copertina © Nedim Grabovica/Xinhua via ZUMA Wire