Ue/Gb: accordo sulla Brexit, se non ora quando?
A due settimane dalla data prevista per la Brexit, il futuro del Regno Unito è ancora appeso a un filo lungo 500 chilometri: è infatti il confine che corre tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord il nodo su cui ormai da tempo si sono incartate le negoziazioni tra Bruxelles e Londra. Il passaggio da Theresa May a Boris Johnson alla guida del governo britannico ha reso la questione ancora più spinosa, data l’ostinata intenzione del nuovo inquilino di Downing Street di uscire dall’Ue entro fine ottobre, costi quel che costi.
Uscire dall’Ue costi quel che costi
Una affermazione da prendere alla lettera visto che si stima che il no-deal Brexit potrebbe costare alla Gran Bretagna fino al 9% del Pil pro capite entro 10 anni. Ma un’affermazione da intendere anche in senso più ampio, visto che arriva a coinvolgere il funzionamento stesso delle istituzioni britanniche. Se ne è avuto un assaggio con il tentativo di ‘sospensione’ del Parlamento britannico, un atto di totale spavalderia sfociato in un conflitto istituzionale che ha coinvolto persino la regina ed è stato risolto solo dalla Corte suprema, che ha accertato l’evidente: le motivazioni del governo per sospendere i lavori di Westminster nascondevano la volontà del premier di impedire al Parlamento di intralciare i suoi piani su Brexit.
Il braccio di ferro non ha giovato a Johnson, costretto a incassare dal Parlamento appena riaperto una legge che vieta l’uscita dall’Ue senza un accordo e che impone, se l’accordo non si trovasse, di chiedere un’altra proroga a Bruxelles. Non riuscendogli nemmeno di ottenere elezioni anticipate – sarebbe stata necessaria una maggioranza qualificata, mentre Johnson ha nel frattempo perso anche quella semplice – negli ultimi giorni la spavalderia del primo ministro sembra aver ceduto il passo a un atteggiamento più aperto al dialogo.
Ipotesi d’intesa oltre la May
La necessità di uscire dall’impasse entro fine ottobre ha spinto quindi Johnson a cercare un accordo con Bruxelles, anche se diverso da quello già concluso da May. Una prima proposta presentata la scorsa settimana è stata ritenuta irricevibile da Bruxelles e Dublino perché avrebbe implicato – nonostante le promesse di Johnson su presunte nuove tecnologie che avrebbero ridotto al minimo la necessità di controlli fisici – una barriera in prossimità del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda: un punto contrario agli accordi del Venerdì Santo.
Londra ha quindi proposto una seconda opzione, recuperando un’idea del governo May (nonostante vari conservatori l’avessero a suo tempo definita “demenziale”): la customs partnership, secondo cui l’Irlanda del Nord resterebbe nello spazio doganale britannico, ma raccoglierebbe i dazi secondo le regole europee. In sostanza, ai beni in ingresso nella regione verrebbe applicato il dazio europeo, ma qualora la Gran Bretagna avesse previsto un dazio più basso per quel bene l’importatore potrebbe richiedere alle autorità britanniche la restituzione della differenza.
Anche questo arzigogolato meccanismo, tuttavia, prevedrebbe un confine fisico per funzionare: nello specifico controlli doganali nel Mare d’Irlanda. Si tratta in pratica di una dogana tra Belfast e il resto della Gran Bretagna. Una opzione che lascia scontenti gli unionisti nordirlandesi e che non a caso Theresa May aveva escluso perché la fiducia al suo governo dipendeva proprio dagli unionisti. Avendo in ogni caso perso la propria maggioranza, Johnson si concede invece una customs partnership limitata all’Irlanda del Nord. Pure questa ipotesi, comunque, rimane al momento troppo vaga per Bruxelles, che ha avviato nei giorni scorsi round intensivi di trattative con Londra per definirne i molteplici e complicatissimi dettagli. “Dettagli” che, in realtà, non lo sono affatto e che possono ancora far saltare l’accordo a un passo dalla data fatidica del 31 ottobre.
Possibili scenari
Quali sono allora i possibili scenari? Per provare a capirlo bisogna tenere sul tavolo i tanti “se” a cui l’interminabile saga di Brexit ci ha ormai abituati. Se Regno Unito e Unione europea non trovassero un accordo, Johnson sarebbe obbligato dal proprio parlamento a chiedere un’ulteriore proroga. Ma il primo ministro ha più volte affermato che per lui il termine di fine ottobre è perentorio. Se si rifiutasse di chiedere la proroga, aprirebbe però un contenzioso senza precedenti tra governo e parlamento, che potrebbe portare Johnson alle dimissioni. Un nuovo governo entrerebbe in carica a quel punto probabilmente solo per chiedere a Bruxelles una proroga per poi dirigersi verso elezioni anticipate. Un’opzione che sembra non spaventare Johnson che potrebbe fare una campagna elettorale tutta incentrata sull’uscita dall’Ue, arrivando forse a sostenere espressamente un’uscita senza accordo. “Irrigidire” la retorica su Brexit permetterebbe ai conservatori di catturare voti dall’elettorato del Brexit Party di Nigel Farage, ma rischierebbe d’altra parte di alienargli molti conservatori moderati (in primis l’ex candidato alla segreteria dei Tories, Jeremy Hunt).
Se invece Gran Bretagna e Ue trovassero un accordo, possibilmente annunciato già durante il Consiglio europeo del 17-18 ottobre, bisognerebbe comunque aspettare l’imprevedibile responso di Westminster. In caso contrario, con la quarta bocciatura da parte dei parlamentari inglesi di una proposta di accordo, ci si troverebbe nuovamente a dover chiedere una proroga. Non è peraltro scontato che i 27 leader dei Paesi dell’Ue (votando, significativamente, all’unanimità) vogliano concedere altro tempo a Londra per un negoziato dall’esito sempre più incerto. A più di tre anni dal referendum, la possibilità di arrivare a una Brexit senza accordo tra due settimane è dunque una opzione concreta: se ciò avvenisse, sarebbe un incredibile spreco di risorse e di tempo per tutti. Un vero fallimento.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana, realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Le opinioni espresse dall’autore/autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell’ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.