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Elezioni e futuro dei rapporti con l'Ue

Svizzera: l’onda verde ferma l’avanzata populista

22 Ott 2019 - Erik Burckhardt - Erik Burckhardt

Stabilità e sviluppo, un Pil pro capite più che doppio rispetto a quello italiano, finanze pubbliche solide e una costante, marcata crescita che contribuisce a tenere il tasso di disoccupazione ben al di sotto della media europea. Anche in un contesto di rallentamento dell’economia globale e di arretramento di quella del Vecchio continente, i fondamentali della Confederazione elvetica sono talmente rassicuranti da richiamare raramente l’attenzione degli osservatori internazionali per quella che viene talvolta definita “la democrazia più noiosa del mondo”.

A mobilitare la cittadinanza sono state recentemente le manifestazioni per il clima, particolarmente seguite in Svizzera, e lo sciopero nazionale delle donne che il 19 giugno ha fatto scendere in piazza mezzo milione di persone su una popolazione complessiva di 8,5. La partecipazione elettorale alle elezioni federali, invece, non supera mai il 50% e all’appuntamento di domenica 20 ottobre per il rinnovo del Consiglio nazionale e della prima parte del Consiglio degli Stati, si è fermata addirittura al 45,1%, con una sensibile inflessione del 3% rispetto alla tornata precedente.

Ciononostante, molti commentatori elvetici vedono nel responso delle urne un risultato storico, a partire dalla significativa crescita del numero di donne elette (+20 deputate) che rappresentano ora il 42% del Consiglio nazionale, mentre i giovani sotto i 40 anni superano di poco il 20%.

Trionfo ecologista, stop della destra
La Svizzera conta da più di un decennio non uno, ma ben due partiti ecologisti: uno marcatamente di sinistra e l’altro d’ispirazione liberale. Raddoppiando quasi il numero dei consensi, i primi hanno raggiunto il 13,2% guadagnando 17 seggi dei 200 della Camera bassa. I Verdi hanno superato così i democristiani, che hanno perso 2 seggi, sfiorando il risultato del Partito liberale-radicale e avvicinandosi a quello del Partito socialista (entrambi in calo di 4 eletti ciascuno). A questo trionfo si aggiunge poi il raddoppio dei Verdi Liberali che con il 7,8% si sono imposti come nuova formazione centrista risolutamente ecologista ed europeista. La democrazia svizzera conferma così il trend europeo registrato alle elezioni del Parlamento europeo, almeno a nord delle Alpi, con una decisa affermazione dei temi ecologisti e dei partiti che fanno della sostenibilità un valore prioritario da difendere per il futuro del pianeta.

Ironia della sorte, l’altro punto che accomuna i risultati delle recenti elezioni europee con quelle federali elvetiche è il risultato tutto sommato deludente per la destra nazional-conservatrice. In Svizzera è rappresentata dall’Udc che, pur confermandosi ampiamente come primo partito con il 25% dei consensi, perde ben 12 seggi parlamentari. L’ossessione anti-Unione europea e anti-immigranti, accompagnata da una nuova retorica anti-Greta Thunberg, non è bastata a mobilitare l’elettorato. Fra i complici del declino, un ruolo va riconosciuto anche a Operation Libero, movimento della società civile nato cinque anni fa che, che dopo aver contribuito al  fallimento di diversi referendum popolari promossi dalla destra nativista, ha risvegliato anche in questa campagna per le elezioni politiche un chiaro rifiuto alla messa in discussione dello stato di diritto e degli impegni internazionali della Svizzera.

La formula magica alla prova del nuovo Parlamento
Ciò che dopo le elezioni può invece essere messo in discussione, per la seconda volta in sessant’anni, è la cosiddetta “formula magica” (Zauberformel) che definisce l’equilibrio della rappresentanza partitica nell’esecutivo elvetico (esempio più unico che raro di forma di governo direttoriale). Il sistema di ripartizione dei sette membri del Consiglio federale segue dal 1959 lo schema 2:2:2:1. A determinare il primo terremoto fu proprio l’ascesa dei populisti nel 2003, che rivendicarono e ottennero un secondo seggio a scapito dei democristiani, ai quali ne è stato destinato da allora soltanto uno. Ora potrebbe essere il momento di una seconda revisione, con i Verdi che potrebbero chiedere una rappresentanza nel governo, aprendo così una grande incognita sulla tenuta della formula stessa: magica fintanto che le elezioni del Consiglio nazionale determinavano una maggioranza chiara e netta, con tre partiti abbastanza forti e una forza minore capaci di rappresentare complessivamente circa l’80% dell’elettorato; molto meno efficace guardando la composizione del nuovo emiciclo che, dietro a un partito saldamente in testa, presenta almeno quattro forze politiche non troppo distanti l’una dall’altra.

I numeri parlano chiaro. Un governo che non includesse i Verdi rappresenterebbe ora meno del 70% degli elettori elvetici. È quanto basta, in quella che The Economist Democracy Index qualifica come una delle venti “democrazie piene” del mondo, per aprire un dibattito serio sull’opportunità di rivedere la formula. Si attende di capire, tuttavia, con quale veemenza lo reclameranno i diretti interessati.

Al momento sembrano timidi, vuoi per mancanza di candidati giudicati sufficientemente autorevoli per un ingresso al Consiglio federale, vuoi per timore di scombussolare il delicato equilibrio politico di cui sono stati parte fino ad ora. Vi è in questo processo qualcosa di estremamente significativo per il futuro di tutta l’area ecologista europea, i cui risultati positivi nelle urne comportano la responsabilità di maturare rapidamente le proprie ambizioni per non limitarsi più a dare battaglia sui valori, ma diventare forza con capacità di sintesi e di governo. La mobilitazione dei cittadini, e soprattutto delle cittadine, per delle problematiche di lungo termine come il clima o le pari opportunità non significa infatti che la Svizzera non abbia problemi concreti da risolvere a breve scadenza: una riforma necessaria del sistema previdenziale e soprattutto le relazioni con l’Unione europea, due temi che i partiti hanno voluto dimenticare durante la campagna.

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© Patrick Pleul/DPA via ZUMA Press

Berna-Bruxelles: così lontane, così vicine
Una volta che saranno conclusi i ballottaggi per la Camera Alta e che il Parlamento avrà eletto il nuovo governo federale per i prossimi quattro anni, la Svizzera dovrà finalmente prendere una decisione riguardo la sua politica europea. Dopo lunghi e intensi negoziati, Bruxelles e le capitali europee attendono ormai da mesi una parola definitiva da parte elvetica sull’accordo istituzionale. Già questa estate non sono mancati alcuni segnali di impazienza, a partire dal disconoscimento da parte Ue dell’equivalenza della Borsa svizzera. Tuttavia, appare probabile che l’insediamento del nuovo esecutivo rappresenti un termine davvero non più rinviabile per capire se la Svizzera è in grado di fare sintesi, anche tra le parti sociali e i Cantoni, sull’accordo che dovrà regolare l’accesso reciproco al mercato unico.

Si tratta di una decisione esistenziale per la Svizzera, se è vero che il mercato unico vale per ogni cittadino elvetico un aumento di 2.900 euro del proprio reddito. A indicarlo sono le stime di uno studio della Fondazione Bertelsmann che nella Svizzera individua addirittura il Paese che approfitta maggiormente del mercato dell’Unione. Il che può apparire paradossale, se si considera che la Confederazione non è uno Stato membro Ue. Ma è invece del tutto logico, se si osserva che il principale risultato dello studio dimostra che sono le regioni più vicine al centro dell’Europa a trarre maggiori benefici rispetto a quelle periferiche (i vantaggi per il reddito degli italiani si attesterebbe intorno ai 763 euro pro capite).

La discussione pubblica riguardo l’accordo istituzionale sarà tuttavia particolarmente difficile. La destra nazionalista è pronta a scendere in campo per difendere il suo referendum sull’abolizione della libera circolazione delle persone, su cui il popolo svizzero voterà verosimilmente a maggio. Un “sì” avrebbe come conseguenza di annullare tutti gli accordi economici fra le due parti: in altri termini, una Brexit alla svizzera. È uno scenario improbabile e avversato da quasi tutte le forze politiche, ma che non si può escludere completamente.

L’arretramento alle elezioni di domenica delle forze più ostili all’accordo, quali i populisti e in una certa misura anche dell’ala sindacale dei socialisti, è un segnale circa la consapevolezza della società svizzera della necessità di continuare a svilupparsi come una società aperta e saldamente connessa all’Unione europea per affrontare le sfide comuni. Allo stato, sarebbe però riduttivo considerare che il rinforzo delle componenti progressiste in Parlamento comporti automaticamente un’accelerazione nell’introduzione di certe politiche europee controverse, contro le quali si è schierata anche parte della sinistra ecologista, in particolare in ambito energetico e agricolo. Ecco che dal formidabile laboratorio politico svizzero si attende una nuova prova di sé.