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Le potenziali conseguenze dell'invasione

Siria/Turchia: i curdi e il pericolo latente dei foreign fighters

28 Ott 2019 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

Oltre sette anni fa, Jordi Tejel, acuto storico e attento osservatore delle realtà curde, pubblicava un articolo dal titolo emblematico: “Syria’s Kurds: troubled past, uncertain future”. Volgendo lo sguardo alla realtà di oggi, le premesse cristallizzate da quella asserzione non sembrano essere mutate grandemente. Una realtà paradossale quella attuale, dal momento che, a seguito della Prima Guerra Mondiale, curdi e turchi si unirono per difendere e difendersi dal pericolo cristiano, con l’intenzione ultima di creare – come promesso da Mustafa Kemal – uno Stato musulmano dei turchi e dei curdi. L’attuale concentrazione curda nel sud della Turchia è stata favorita dal genocidio pluridecennale perpetrato dall’allora Impero ottomano il quale, epurando la regione dalla presenza cristiana, ha permesso a molti curdi di stanziarsi sui territori delle comunità eradicate.

I recenti sviluppi
Per ciò che concerne gli ultimi sviluppi, a oggi risulta difficile prevedere l’evoluzione degli eventi nei prossimi mesi. La situazione infatti risulta ancora in fase di assestamento, nonostante ora sembri più stabile.

Il recente accordo tra Russia e Turchia, oltre a riaffermare il ruolo decisivo che Mosca ha assunto nella regione,  eviterà, nei limiti del possibile, ulteriori scontri sanguinosi tramite una “zona cuscinetto” di 30 km tra il confine turco e quello siriano, nonché pattuglie congiunte russo-turche di controllo del rispetto del cessate il fuoco per i primi 10 km di quest’area.

Problematiche vecchie e nuove
In maniera più ampia, la recente invasione turca della Siria spinge nuovamente a interrogarsi sulle problematiche storiche della questione curda – ma sarebbe meglio dire questioni curde – e, più in generale, delle questioni mediorientali. Inoltre, essa solleva anche problematiche più imminenti, come le migliaia di foreign fighters di differenti nazionalità, anche europee, rinchiusi nelle carceri del proto-stato costruito dai curdi.

Sul primo punto, occorre evidenziare che, quantomeno sino ad oggi, e diversamente dalla battaglia per l’autodeterminazione di altri popoli – come quello palestinese o saharawi-, la controversia curda non è mai riuscita a ottenere piena dignità di questione internazionale.

Infine, l’invasione turca del territorio siriano riporta in auge il tema del significato dei confini e del rispetto delle prerogative della sovranità statuale in una regione in cui, come dimostra il conflitto siriano – o quelli yemenita e libico, oltre che le vicissitudini libanesi, egiziane o irachene -, il concetto, tipicamente europeo, di non-interferenza negli affari interni di altri Stati si stempera in maniera a dir poco effimera.

Ciò per una serie di ragioni, tra cui il fatto che le molteplici relazioni tra i diversi aggregati umani dell’area non siano mediate esclusivamente degli organi statuali e dalla loro politica di potenza, ma contemplino rapporti che esulano da questi ultimi. Sussistono, infatti, legami collettivi di vario genere: di clan, tribali (da intendere non nella loro accezione anacronistica, bensì identitaria), religiosi o familiari, soggiacenti (o sovrastanti?) le relazioni propriamente statuali, i cui confini, quelli osservabili dalla cartina geografica, ne danno solo una parziale e approssimativa sintesi.

Il rischio dei foreign fighters nelle carceri
Uno dei pochi politici ad aver intuito con largo anticipo l’attuale andamento delle circostanze è il ministro della Giustizia belga Koen Geens. Mesi fa, infatti, preconizzò un possibile attacco turco ai curdi, qualora il supporto americano fosse venuto meno, mettendo in evidenza, inoltre, le debolezze insite nelle precarie condizioni del sedicente Stato del Rojava. Affermando che ciò avrebbe comportato un rischio per l’area, e anche per l’Europa, si era poi spinto più in là, caldeggiando un approccio europeo alla questione e optando per una formula assiomatica dalla quale cominciare a risolvere la problematica: “Control is better than total freedom”.

Il Pyd, il Partito dell’unione democratica curdo, costola del Pkk e il cui braccio armato Ypg è stato impegnato nei combattimenti contro Daesh, alias Isis, il sedicente Stato islamico, ha spesso parlato della necessità di costituire un tribunale internazionale per i combattenti non arabi, iracheni o siriani. Quantitativamente, gli ex combattenti di Daesh nelle prigioni – un eufemismo, dato che alcune sarebbero edifici di fortuna – delle Forze democratiche siriane si aggirerebbero attorno ai diecimila individui. Tra questi, circa mille sarebbero europei.

Alcune ricerche, condotte in loco dall’International center for the study of violent extremism (Icsve), hanno evidenziato come la maggior parte di questi siano in realtà totalmente disillusi dall’esperienza con Daesh, esausti dalle battaglie e dalla prigione, e pronti a tornare dalle loro famiglie dopo aver atteso giusta sentenza. Questi studi, che hanno coperto solo una minima parte della popolazione carceraria, racchiudono una verità necessariamente parziale.

È difficile in questo momento prevedere come evolverà la situazione. Al momento, la minaccia di evasioni di massa da parte dei foreign fighters detenuti sembrerebbe essere parzialmente rientrata, in seguito alla recente visita del vicepresidente americano Mike Pence in Turchia e alla decisione di decretare un cessate il fuoco di cinque giorni, successivamente prolungato, tra le forze turche e curde, nonché grazie al ritiro dei curdi verso sud per una fascia di 30 km di lunghezza per 480 km di larghezza.

Non solo il pericolo carceri
Potenziali percorsi di radicalizzazione tuttavia potrebbero consolidarsi non solo nelle carceri controllate dai curdi, le quali, seppur in maniera rudimentale e non omogenea, stanno con coraggio tentando di implementare programmi di reintegrazione degli ex combattenti di Daesh, senza puntare su un approccio punitivo, ma inclusivo.

Lontano dalla cronaca quotidiana, questo problema, infatti, è particolarmente sentito, sebbene con diversa gradualità, nei vari campi profughi presenti nel nord della Siria, quali quelli di Ein Issa, Mahmudli, Abu Khashab, Areesheh e al-Hol. In quest’ultimo, ad esempio, sono ospitate oltre settantamila persone – nuclei affiliati a Daesh, alla cui testa si trovano spesso donne -, e nel corso dei recenti mesi, si è assistito alla riproduzione di un succedaneo delle attività di Hisba, così come svolte dai Muhtasib. Si tratta di attività di controllo, nei vari ambiti della vita quotidiana, del pedissequo rispetto della legge islamica. Questi nuclei all’interno dei campi, pertanto, rappresenterebbero, benché in maniera dissimulata, un potenziale problema per la sicurezza dell’area.

Il machiavellismo curdo
Le opere di Murray Bookchin, filosofo anarchico e pioniere di un feroce anti-capitalismo ecologico e libertario, oltre che sensibile alle tematiche dell’emancipazione femminile e del decentramento della governance, ispirano da tempo le azioni del Pkk e del Partito dell’unione democratica curdo. È evidente che il supporto statunitense – spesso decisivo – di cui i curdi siriani hanno beneficiato nella battaglia contro Daesh abbia costretto i leader dello Pyd/Ypg a un esercizio di realismo non indifferente.

Allo stesso modo, l’intesa che ora sembrerebbe profilarsi tra il vituperato regime di Bashar al-Assad e i curdi – un’intesa vecchia di decenni e ribadita di recente dal capo delle Forze democratiche siriane, il curdo Mazloum Abdi – dovrebbe spingere alcuni osservatori a considerare finalmente la battaglia curda in maniera meno ideologizzata e mitizzata.

Questo non significa non riconoscere l’avanguardia della filosofia politico-sociale professata dai curdi siriani, quasi un unicum in Medio Oriente, o non riconoscere il sacrifico di un popolo che, assieme a quello della minoranza yazida e cristiano-siriana, ha combattuto strenuamente contro un nemico aberrante. Al contrario, significa ricondurre la realtà dei fatti al proprio posto e semmai discutere di quanto la coerenza verso i propri ideali possa far sì che il fine possa, o debba, giustificare sempre, o solo talvolta, i mezzi utilizzati.