Libano: la protesta dei giovani che sfidano il governo
Dopo gli estesi incendi della scorsa settimana, stavolta ad infiammare il Libano sono le proteste contro le misure di austerità e la corruzione che da una settimana divampano in tutto il Paese. L’assenza delle tradizionali connotazioni settarie che hanno caratterizzato tutte le manifestazioni precedenti è un aspetto da non sottovalutare.
In una situazione economica disastrosa, con il debito pubblico pari al 150% del Prodotto interno lordo (il terzo più alto al mondo), una crescita stagnante e la disoccupazione al 25% con picchi del 37% per quella giovanile, la proposta del governo di introdurre una nuova tassa sulle chiamate WhatsApp e un impopolare aumento dell’Iva dall’11 al 15% entro il 2022 ha fatto esplodere la piazza libanese.
Carovita, immobilismo politico e disagio sociale
Subito dopo l’annuncio delle nuove imposte, un centinaio di manifestanti è sceso per le strade del centro di Beirut a protestare. La WhatsApp Tax, che avrebbe fatto tirare un sospiro di sollievo pari ad appena 250 milioni di dollari alle scarne casse pubbliche libanesi, avrebbe significato una spesa annua di circa 72 dollari per milioni di utenti. Si tratta di cittadini comuni che rifuggono nelle chiamate VoIP a fronte di tariffe telefoniche tra le più alte al mondo, stabilite dalle due compagnie statali che si dividono l’intero mercato libanese in un duopolio che determina unilateralmente il prezzo dei servizi telefonici.
Ma ovviamente non si tratta solo di questo. Le ultime vicende altro non sono che la punta dell’iceberg di un sistema economico profondamente diseguale e sclerotizzato in cui gli interessi economici e politici si confondono in un ambiguo immobilismo. A mancare è proprio la volontà politica di implementare le riforme strutturali che scardinerebbero tale sistema. Sono anni che vengono infatti implementate solo misure isolate per aggiustare temporaneamente i conti pubblici, ma che non riescono, da sole, ad assicurare l’accesso agli 11 miliardi di dollari messi a disposizione dai donors internazionali alla conferenza internazionale per lo sviluppo e le riforme del Libano (Cedre) dell’aprile 2018.
La sperequazione sociale in Libano raggiunge livelli altissimi, tant’è che un quarto della ricchezza totale prodotta nella terra dei cedri è nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 50% dei libanesi è costretto a vivere potendo contare solo sul 10% del reddito nazionale. E se a ciò si aggiunge la patologica carenza di servizi e beni pubblici (anche quelli più essenziali come l’erogazione di acqua ed elettricità), nonché la svalutazione della lira libanese, il quadro delle ragioni strutturali delle proteste è sicuramente più chiaro.
In piazza contro il governo
La rabbia del popolo libanese è arrivata ad un punto di non ritorno ed è letteralmente esplosa. Dopo un incidente con la guardia del corpo del ministro dell’ istruzione Akram Chehayeb che ha iniziato a sparare in aria, in decine di migliaia si sono riversati non soltanto nelle strade della capitale, ma da nord a sud, passando per la valle della Beqaaʿ, per manifestare contro tutta la classe politica, responsabile del disastroso status quo e chiedendo le dimissioni del governo.
La risposta del primo ministro, Saʿad al-Hariri, è arrivata qualche giorno dopo l’inizio delle proteste e, ben lontana dalle rivendicazioni politiche dei manifestanti, si è limitata all’approvazione di un pacchetto di riforme economiche che dovrebbero fruttare 3.4 miliardi di dollari. “Troppo poco, troppo tardi”: tra le misure c’è il dimezzamento dei salari di ministri, parlamentari in carica e non, nonché ex-presidenti, il blocco di nuove imposte nel 2020, lotta alla corruzione mediante un comitato ad hoc ancora da definire e misure volte a migliorare il sistema elettrico e delle telecomunicazioni. L’obiettivo è quello di ridurre il disavanzo pubblico dal 7,59% del 2019 allo 0,63% del Pil per il prossimo anno.
Al di là dell’eventuale successo delle riforme proposte, il problema principale resta, ed è squisitamente politico. Immaginare una soluzione economica a un problema che affonda le sue radici nel profondo di un sistema politico confessionale basato su divisioni settarie che stanno ormai troppo strette alla società libanese è alquanto difficile. Infatti, il pacchetto di riforme assomiglia più che altro a un tentativo disperato di regime survival con cui le élite al governo cercano altre strade per rimpiazzare il sostegno settario da parte delle loro comunità di appartenenza, venuto meno con le recenti proteste popolari.
È questa una delle differenze sostanziali con le precedenti proteste di massa, nonché l’aspetto che più fa sperare in un cambiamento. Nella intifada al-istiqlal successiva all’assassinio di Hariri padre nel 2005, così come nella protesta popolare contro il waste mis-managemnt esplosa nell’agosto 2015, la società civile era scesa in piazza divisa, senza riuscire a fare fronte comune. A quel tempo era impensabile per uno sciita criticare apertamente personalità come Hassan Nasrallah e Nabih Berri, rispettivamente leader dei due maggiori partiti sciiti libanesi Hezbollah e Amal, o più in generale puntare il dito contro il presidente Michel Aoun o il primo ministro Saʿad al-Hariri.
Mettere in discussione il sistema politico confessionale
Tuttavia, nonostante siano palesi gli obiettivi delle proteste, scanditi a chiare lettere nei cori che ricordano le rivoluzioni arabe del 2011, meno chiara è la strada da intraprendere per il raggiungimento degli stessi. Si fa appello a un governo tecnico non confessionale che adotti le riforme economiche necessarie per poi andare in tempi brevi alle elezioni, ma è difficile immaginare come questo possa portare al cambiamento politico voluto se non si mette in discussione l’intero sistema politico confessionale deciso a Taef trent’anni fa dopo la guerra civile, e con l’ultimo censimento ufficiale che risale al lontano 1932.
Di fronte a una totale sfiducia nei confronti di un sistema politico ritenuto incapace di implementare le riforme promesse da anni, a dover essere rinegoziato è il contratto sociale nel suo complesso. Quest’ultimo è imploso sotto il peso delle contraddizioni e l’insostenibilità di un sistema che non riesce più a dividere et imperare intessendo legami clientelistici, procedendo con meccanismi redistribuitivi che fanno leva sulla frammentazione del tessuto sociale abilmente prodotta e riprodotta dall’alto. Questo sta emergendo con forza non soltanto in Libano, e i recenti eventi in Algeria e Sudan sono un chiaro esempio di come le pressanti sfide socioeconomiche, lungi dall’essere questioni meramente tecniche, hanno una forte connotazione politica con cui prima o poi occorrerà fare i conti.
Foto di copertina © Marwan Naamani/DPA via ZUMA Press