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Dinamiche sociali, economiche, politiche

Iraq: proteste, fermenti fra sciiti al Sud, bilancio pesante

8 Ott 2019 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

Sabato 5 ottobre, dopo 48 ore di coprifuoco a Baghdad, il governo iracheno ha deciso di rivedere parzialmente la misure imposte al fine di contenere le gravi proteste che, dall’inizio della scorsa settimana, stanno caratterizzando la quotidianità dell’Iraq.

Tuttavia, in altre regioni del Sud, il coprifuoco sarebbe ancora presente, sintomo di una situazione che – ancor oggi – non riesce a tornare alla normalità; seppur l’utilizzo di questo termine nel caso iracheno sia sempre da considerare con estrema cautela.

Il bilancio delle proteste sino ad ora è molto pesante: 110 morti ed oltre 4000 feriti, a rappresentare una delle pagine più cupe del Paese dalla sconfitta del sedicente Stato islamico, l’Isis, ad oggi.  A Baghdad, da un punto di vista prettamente economico – ed al di là delle debolezze endemiche dell’economia irachena, come la carenza di elettricità ed acqua potabile – a peggiorare la situazione v’è stato l’innalzamento del prezzo dei legumi, che sembrerebbe essersi triplicato da quando, a causa delle proteste, le strade da e per Baghdad sarebbero state chiuse.

Un dato importante è quello relativo alla localizzazione delle proteste. Queste infatti sembrerebbero svilupparsi principalmente nelle aree del centro-sud del Paese, storicamente a maggioranza sciita, mentre nelle regioni sunnite e curde al nord, al momento, non sembrerebbe essersi sviluppato nessun evento violento, né alcuna manifestazione di rilievo.

Questo è singolare nella misura in cui in passato, specialmente per ciò che concerne il periodo di transizione successivo all’invasione statunitense (che coincise con il periodo d’incubazione delle varie formazioni jihadiste che poi diedero vita alla Stato Islamico), le regioni maggiormente riottose erano quelle a maggioranza sunnita nel nord. È un dato significativo, la cui rilevanza nel medio periodo rimane, tuttavia, quantomeno enigmatica.

La risposta del governo
Il governo di Adel Abdoul Mahdi – ex comunista, e poi esponente di spicco del Consiglio supremo islamico iracheno, partito a carattere sciita, fondato a Teheran nel 1982 durante la guerra Iran-Iraq – ha deciso, ad un anno dal suo insediamento, di stilare una lunga lista di promesse per smussare la rabbia crescente negli strati più bisognosi della popolazione.

Le sue 17 proposte, che vanno da una serie di misure per creare occupazione tra le fasce più giovani della popolazione (si parla, al momento, di offrire un compenso economico mensile ai giovani senza lavoro), sino ad arrivare al controverso tema delle abitazioni, saranno al cuore del dibattito politico domestico del Paese nelle settimane a venire.

Alcune fonti di stampa, le quali hanno raccolto gli umori dei manifestanti, hanno riferito di proteste nate sull’onda della grave disoccupazione giovanile (in Iraq, un giovane su quattro è – ad oggi – senza lavoro) e della corruzione dilagante. Un fatto certamente indicativo, e ancora più sconcertante se si pensa che il governo amministra le sue attività quotidiane esercitando la propria sovranità sulle quinte riserve petrolifere del pianeta.

Come altri Paesi, l’Iraq sembrerebbe essere colpito da quella che nel gergo della scienza politica viene definita  “la maledizione delle risorse”. Non esente da critiche, questa teoria tenta di trovare una causalità diretta tra abbondanza di risorse naturali, bassa crescita economica, deboli istituzioni democratiche e difficoltà nello sviluppo – ovvero difficoltà a intraprendere una trasformazione strutturale dell’economia.

Nel caso specifico del petrolio poi, e quindi anche nel caso iracheno, numerosi studi hanno stabilito la correlazione tra insufficienti livelli di democraticità e abbondanza di ricchezza petrolifera: quest’ultima favorirebbe pratiche predatorie e clientelari, cementando le diseguaglianze tra le diverse fasce della popolazione, dando vita potenzialmente a differenze settarie.

Una conferma della linea al-Sadr
Da questa situazione emerge parzialmente vincitore (benché indiretto, in quanto le proteste non hanno avuto, ad oggi, una chiara figura politica di riferimento) Moqtada al-Sadr, elemento centrale nel panorama politico iracheno da più di un decennio e storico – se non anche il più famoso – oppositore islamista sciita all’invasione americana.

Uscito vincitore dalle recenti elezioni legislative (maggio 2018), il clerico sarebbe (ed è) una figura in grado di catalizzare il dissenso verso forme di espressione maggiormente effettive, istituzionali. Nel linguaggio dei media occidentali egli è classificato come un populista, anche se questa definizione – di sovente utilizzata nei suoi riguardi – probabilmente non coglie in maniera efficace l’importanza odierna del suo ruolo, riducendolo, per quanto possibile, a un mero “agitatore di folle” nonché abile sobillatore di proteste.

La recente – e rara – visita di al-Sadr a Teheran durante la festa dell’Ashura, dove si è fatto fotografare con l’Ayatollah Ali Khamenei e il capo delle forze Quds Qasim Soleimani,  è un segnale del riconoscimento iraniano del suo ruolo centrale nel complesso politico domestico iracheno; questo incontro giunge in seguito a delle critiche espresse da Sadr nei confronti delle milizie sciite pro-iraniane presenti in territorio iracheno e dopo una visita del clerico di Baghdad in Arabia Saudita.

Alcuni giornali del Golfo, di tendenza anti-iraniana, hanno addirittura affermato che questa visita rappresenterebbe una convocazione ufficiale, quasi Sadr fosse un esponente della diplomazia o della politica iraniana, e non un militante islamista iracheno che utilizza le garanzie costituzionali del proprio Paese per svolgere attività politica in relativa autonomia.

I problemi iracheni sono i problemi del Medio Oriente
La regione mediorientale è caratterizzata da problemi endemici, che, aggiunti a quelli che preoccupano le mutue relazioni internazionali, rendono la condizione della popolazione dell’area vulnerabile. I recenti rapporti di Transparency International indicano la presenza di clientelismo, corruzione, cattiva gestione delle finanza pubbliche, incapacità di attrarre investimenti; oltre a ciò, le proteste e il dissenso vengono ancora ampiamente repressi, spesso in maniera autoritaria, così come accaduto di recente in Iraq.

Per ciò che concerne quest’ultimo Stato, dopo la crisi portata nella regione dall’invasione americana del 2003, dopo l’emersione del fenomeno jihadista – culminato con la formazione dell’Isis -, dopo che la stabilizzazione, quantomeno securitaria, ha apportato dei risultati minimi ma importanti in un Paese che ha conosciuto negli ultimi decenni solo guerre e pesanti sanzioni, ora il governo eletto iracheno è chiamato (dal suo popolo) ad incamminarsi verso una democratizzazione effettiva – non solo de jure –, che non si componga soltanto di diritti civili e politici, ma anche di quelli economici e sociali.

L’attuale governo iracheno sta vivendo i prodromi del consolidamento dell’esercizio democratico, oltre che la problematiche della questione della legittimazione politica. Il cammino si prospetta veramente tortuoso e, ad oggi, le speranze di vedere in un lasso di tempo relativamente breve il Paese cambiare sono ancora flebili.