Interesse nazionale e Weltanschauung: ruolo diplomazia
Il 17 marzo 1861, nelle ore immediatamente successive alla proclamazione del Regno d’Italia, il conte di Cavour stese di suo pugno le istruzioni per l’ambasciatore a Londra. La lettera, prima richiesta di riconoscimento ufficiale del nuovo Regno e quasi “atto di nascita” dell’Italia come Stato-nazione, testimonia il rapporto che aveva legato in quelle formidabili circostanze Cavour e gli ambasciatori sabaudi presso le principali capitali europee, rapporto di stretta collaborazione ma anche di condivisione del travaglio diplomatico e della visione che ne era sottesa: “avrete, ne sono certo, tanta soddisfazione a svolgere tale compito almeno quanta ne ho io a conferirvelo”. La diplomazia svolse un ruolo fondamentale nel Risorgimento e successivamente nel neo-costituito Regno d’Italia per il consolidamento, più o meno riuscito, di un’Italia ancora debole e attraversata da fratture gravissime: regionali e sociali, di sviluppo economico (agricolo e industriale), burocratiche e di cultura dell’amministrazione, linguistiche e, naturalmente, religiose con la questione romana a tracciare un solco nelle coscienze dei cattolici italiani per oltre 50 anni. Lo stesso ruolo fu assicurato, di fronte a sfide di enorme portata, dalla diplomazia della Repubblica.
Il contributo della diplomazia
In oltre 150 anni di storia, l’Italia ha attraversato eventi tragici, come il fascismo e i due conflitti mondiali, e felici come l’adesione alla Nato e alla costruzione europea, l’ingresso nelle Nazioni Unite, e la ricostruzione di un Paese semi-distrutto dal secondo conflitto mondiale tornato alla fine degli Anni Sessanta – grazie al Piano Marshall, al mercato unico e, soprattutto, ai sacrifici e al lavoro in Italia e all’estero del suo popolo – tra le grandi potenze economiche.
In questo secolo e mezzo, pur con le inevitabili luci e ombre, la diplomazia italiana ha dato un contributo determinante alla sicurezza e prosperità del nostro Paese. E in alcuni casi ha dimostrato di saper interpretare il proprio ruolo e la propria funzione anche meglio dei propri governanti.
Basti pensare a figure come Filippo de Grenet (eroe della Resistenza trucidato alle Fosse ardeatine), al ruolo svolto da alcuni diplomatici italiani per salvare migliaia di ebrei dalle persecuzioni durante il conflitto mondiale, all’azione svolta in Cile durante il colpo di Stato del generale Pinochet e a tutti coloro che hanno posto e pongono tuttora consapevolmente a rischio la loro vita nel servizio allo Stato. De Grenet e tanti altri funzionari del Ministero degli esteri sentirono senza dubbio, in circostanze eccezionali, il dilemma tra l’obbedienza agli ordini e l’adesione a valori fondamentali quali la sacralità della persona umana e la sua dignità. Nelle loro scelte non dimostrarono soltanto eroismo e coraggio, ma anche di saper interpretare al meglio e in maniera molto più profonda il senso del servizio allo Stato, che è innanzitutto servizio ai valori più alti che esso dovrebbe incarnare. Non in una visione messianica o hegeliana, ma nel senso di un patriottismo olistico, nel quale l’interesse nazionale viene sussunto nell’identità costituzionale e valoriale della nazione.
La diplomazia italiana ha il ruolo fondamentale di interprete e promotrice dei valori e interessi fondamentali della Repubblica. E ha la funzione chiave di garantire che, nel quadro dell’azione esterna del nostro Paese e in particolare nei rapporti con le organizzazioni internazionali e gli altri Stati, la promozione dell’interesse nazionale sia in sintonia col sistema di valori della Repubblica e con le direttrici prioritarie della politica estera italiana: adesione a un ordine internazionale basato sulla pace, il rispetto dei diritti umani e dei principi dello stato di diritto; europeismo e atlantismo; stabilità e prosperità del Mediterraneo allargato; multilateralismo.
Una nuova agenda per un nuovo mondo
Nei prossimi anni la demografia, il mutamento degli equilibri geo-politici e geo-economici, i progressi dell’innovazione tecnologica “disruptive” e non, l’ulteriore sviluppo della digitalizzazione dell’informazione, la diffusione del potere nelle reti e snodi multi-livello e transnazionali (politica-amministrazione-media-società civile), l’aumento delle situazioni di tensione e conflitto tra stati e negli Stati, la crisi della rappresentatività politica indeboliranno ancora di più l’assetto dell’ordine mondiale post-bellico, imporranno nuovi temi per l’agenda multilaterale, ridisegneranno la stessa eco-sfera della politica estera e della diplomazia bilaterale e multilaterale.
Come al termine delle guerre napoleoniche e dei due conflitti mondiali stiamo entrando progressivamente nell’epoca dell’“interregnum”. Nella quale Antonio Gramsci vedeva la tensione tra il passato che non vuole morire e il futuro che non riesce a nascere. E nella quale, secondo la tradizione giuridica romana, venivano ridisegnate le regole del futuro da quella che sarebbe poi divenuta l’élite dominante. Ne La grande illusion, Jean Renoir descrive con grande sensibilità e profondità di visione questa situazione di incertezza nelle figure dei due prigionieri francesi di un campo di prigionia tedesco: l’aristocratico Pierre Fresnay e il borghese Jean Gabin. Si rispettano, combattono insieme, sono patrioti e solidali; ma non si capiscono in quanto espressione, appunto, l’uno del mondo che sta morendo e l’altro di quello che sta nascendo.
E’ in questo senso che va interpretata la dicotomia tra continuità e cambiamento nel quadro della politica estera italiana. La continuità è ineludibile: le direttrici già citate sono identitarie e non possono mutare o essere abbandonate: diritti umani, Stato di diritto, Europa, atlantismo, mediterraneità, multilateralismo, rappresentano quello che siamo stati, siamo ora e saremo nel futuro.
Ma di fronte alla rapidità e alla portata dei cambiamenti in corso il sistema di politica estera italiano deve accettare le sfide del futuro: riformare, adattarsi, innovare. In sintesi, dobbiamo cambiare per restare noi stessi.
L’Italia nel progetto europeo
L’europeismo italiano è stato dalle origini una forza trainante della costruzione europea per lo slancio ideale, la dinamicità e il pragmatismo; nella spinta verso forme più avanzate di integrazione, ma sempre nel segno del realismo e della sostenibilità delle innovazioni. Nell’attuale situazione di stallo del processo di integrazione la strada maestra sarebbe quella dell’avvio di un nuovo processo di riforma dei Trattati. Le ferite del 2005 (bocciatura del Trattato costituzionale nei referendum di Francia e Paesi Bassi) e del 2007 (bocciatura, poi superata, del Trattato di Lisbona nel referendum in Irlanda) sono però troppo recenti ed è davvero difficile immaginare, nell’attuale situazione di frammentazione dell’opinione pubblica europea ipotesi di riforme dei Trattati in grado di sopravvivere ai processi di ratifica in 27 (o 28?) Stati membri.
L’obiettivo prioritario nell’attuale fase storica deve essere quello di ricostruire gradualmente il senso di appartenenza e identificazione dei cittadini nel progetto europeo. Lo strumento (integrazione differenziata) è già disponibile. Rilancio della crescita, politiche sociali e lotta alle diseguaglianze, politiche migratorie, politica industriale rappresentano solo alcuni dei settori in cui, restando nel segno dell’inclusività, il successo di esperienze di cooperazione rafforzata tra alcuni Stati membri può aprire la strada verso forme di integrazione più avanzata e favorire il ravvicinamento dei cittadini alla costruzione europea.
Il rapporto transatlantico e la Nato non rappresentano per l’Italia solo una coalizione politica e militare e un formidabile sistema di difesa collettiva. Rappresentano anche i fondamenti dell’alleanza tra i due principali sistemi di riferimento della democrazia liberale. Nel momento in cui nuovi e vecchi attori globali, espressione di modelli di democrazia ‘diversamente liberali’ e magari più efficaci (ma solo nel breve termine), si riaffacciano da protagonisti sulla scena internazionale, le scelte di campo e le alleanze sono obbligate sia per gli Stati Uniti che per l’Unione europea e i suoi Stati membri. Senza rinunciare alla propria sovranità e autonomia strategica, in particolare sugli scenari di crisi e instabilità che la riguardano direttamente, il rapporto con gli Stati Uniti è iscritto nel dna dell’Italia e dell’Unione europea. A maggior ragione in un’epoca in cui le minacce del terrorismo, dei conflitti ibridi, della disinformazione e dell’iper-tecnologia ‘deviata’ attaccano direttamente il patrimonio comune dei diritti fondamentali e dei principi dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa.
La diplomazia ‘all’italiana’
E’ bene però sgombrare il campo da equivoci: c’è una differenza profonda tra lealtà e fedeltà. Uno degli “atout” principali della diplomazia italiana risiede nella capacità di comprensione dei contesti e di dialogo con tutti gli interlocutori, anche in funzione di valore aggiunto rispetto al raggiungimento degli obiettivi comuni. La lealtà nei confronti dei nostri alleati non esclude intese a geometria variabile che, in determinati contesti e su dossier specifici, possano consentire di massimizzare l’azione di promozione dei nostri valori e interessi, senza mettere né in discussione né a rischio il quadro europeo e transatlantico.
Ciò vale a maggior ragione per il “Mediterraneo allargato”, lo spazio che va dallo stretto di Gibilterra fino all’Iran e copre il bacino mediterraneo, il Medio Oriente, il Sahel, il Corno d’Africa. E’ un’area fondamentale per il futuro dell’Italia e dell’Europa la cui stabilità e prosperità è pre-condizione della nostra stabilità e prosperità. Ed è l’area in cui Washington e la stessa Bruxelles hanno lasciato ampi spazi alla ritrovata assertività degli attori regionali e di Mosca (che oscilla tra ossequio alla non-interferenza e sostegno a regimi/figure autoritari) e alle dinamiche innescate dall’interesse, per ora principalmente geo-economico, di Pechino. Questa combinazione di omissione e attivismo si somma, con intensità diversa nei differenti Paesi, a fragilità demografiche, socio-economiche, generazionali, all’impatto delle nuove tecnologie, al ruolo dell’Islam politico, alla cattiva amministrazione, alla corruzione e alle pratiche clientelari.
Il risultato finale è una miscela ad altissima volatilità.
L’Italia in seno all’Unione europea ha cercato, ben prima delle Primavere arabe, di evidenziare i rischi della situazione e la necessità che la stabilità e prosperità del Mediterraneo allargato figurino tra le priorità della politica estera e di sicurezza europea. Stabilità e prosperità di medio-lungo termine si raggiungono con politiche di sviluppo sostenibile e con il rafforzamento della resilienza istituzionale e socio-economica, ma anche con il rispetto dei diritti umani e con l’affermazione dei principi della democrazia e dello Stato di diritto. L’attuale narrativa a favore del ‘trade-off’ tra sicurezza e democrazia non è accettabile: è sostanzialmente miope; è sottilmente razzista; è, paradossalmente, foriera di instabilità nel medio-lungo periodo; ed è infine controproducente, in quanto non fa altro che accentuare le fratture esistenti tra occidente e mondo islamico.
Rivoluzione tecnologica e azione riformatrice
La crisi dell’ordine liberale post-bellico è direttamente collegata alla definizione della nuova agenda multilaterale. Sono cambiati gli attori principali dell’ordine. Sono cambiati i temi fondamentali dell’agenda, che sarà dettata dall’emergenza del cambiamento climatico e della crescita delle diseguaglianze nelle economie mature, e soprattutto dall’impatto delle innovazioni tecnologiche. Ogni rivoluzione tecnologica ha avuto effetti dirompenti.
Basta pensare all’impatto delle successive rivoluzioni agricole, di quella industriale e della prima rivoluzione digitale sull’economia, la società, la politica e gli scenari globali. L’intelligenza artificiale e le sue applicazioni pongono tuttavia una serie di interrogativi senza precedenti che riguardano l’interazione tra la capacità di accumulare una quantità enorme di dati con possibilità straordinarie di elaborazione e razionalizzazione algoritmica. Interrogativi che riguardano, tra l’altro, il vantaggio competitivo ormai accumulato da alcuni dei grandi attori internazionali pubblici e privati (in un sistema ormai oligopolistico) e lo iato crescente tra regimi autoritari e liberal-democratici.
Forse ancora di più che negli esempi precedenti, per l’Italia e l’Europa la continuità nell’adesione ai principi del multilateralismo deve essere associata al cambiamento e alla capacità di essere protagonisti nell’azione riformatrice. La priorità è includere i nuovi attori nell’ordine e ridisegnare assieme a loro le regole affrontando con fermezza alcuni nodi fondamentali che riguardano direttamente e indirettamente le tecnologie ‘dirompenti’ e il nuovo sistema normativo internazionale che dovrebbe disciplinarne l’utilizzo: tra tutti, il futuro del lavoro, la dicotomia pubblico/privato, il rispetto dei diritti umani, delle libertà individuali e della privacy, il ruolo dello Stato nell’economia, gli standard sociali e ambientali.
Questo obiettivo si raggiunge solo rifiutando la logica dello scontro a ogni costo e adottando invece la dinamica competizione/collaborazione. L’Italia e l’Unione europea, assieme agli Stati Uniti, devono diventare più forti cooperando e investendo sulle proprie infrastrutture materiali e immateriali (educazione, scienza, innovazione tecnologica, cultura, ricerca) per competere e cooperare su un piano di parità con le future superpotenze mondiali.
I ‘fantasmi’ dell’interesse nazionale
Basta scorrere i giornali italiani degli ultimi anni per notare come la promozione dell’interesse nazionale sia oramai il ‘mantra’ più recitato nel dibattito di politica estera. Il messaggio comune (per una volta bipartisan) è che è ormai tempo che l’Italia sia più propositiva e assertiva, e che ponga l’interesse nazionale come priorità della propria politica estera in particolare nei negoziati a Bruxelles.
“Perché? cosa credono che abbiamo fatto negli ultimi cinquant’anni?”, commentava sarcasticamente con me un ambasciatore recentemente scomparso. La storia dell’interesse nazionale tradito o mal difeso risponde a fantasmi più profondi, quali quello della fragilità del nostro Stato-nazione e della supposta debolezza dell’identità nazionale italiana. Non a caso tale narrativa trova poco riscontro nelle altre grandi democrazie europee.
L’ossessione italiana per l’interesse nazionale nasce da un equivoco di fondo, dalla confusione tra due piani differenti che nella politica estera dei grandi Paesi dovrebbero sempre integrarsi nella categoria degli ‘interessi essenziali’: quelli dai quali, secondo Joseph Nye dipende la sopravvivenza dello Stato.
Appunto. La categoria dell’interesse nazionale è fine a se stessa se non è collocata in un sistema che esprima complessivamente l’identità della nazione, la sua visione del futuro e degli assetti internazionali, la coscienza del suo ruolo e della sua collocazione in un sistema di alleanze e solidarietà che è anche valoriale.
Il dibattito sull’individuazione degli interessi nazionali senza una Weltanschauung rischia di tradursi in una ‘patafisica’ in cui il particolare prevale sul generale e in cui tutto è prioritario e niente è prioritario. E viceversa. La sola Weltanschauung separata dagli interessi nazionali può diventare una visione metafisica senza alcun impatto o connessione con la realtà.
Pur tra tante luci e ombre, la diplomazia del Regno d’Italia e quella della prima Repubblica – e più in generale le élite italiane dell’epoca – ebbero netta la nozione del collegamento consustanziale tra visione/identità della nazione e interessi nazionali.
L’identità della politica estera italiana
La promozione dell’interesse nazionale si colloca nel quadro disegnato dai principi fondamentali della Costituzione, in particolare gli articoli 1, 2, 3, 10 e 11, dalla scelta esistenziale di collocazione internazionale e valoriale maturata negli anni del dopoguerra, dalla nostra collocazione geo-politica e dalla rilevanza del nostro sistema economico-produttivo. In tal senso, diritti umani e stato di diritto, Europa, atlantismo, Mediterraneo allargato, multilateralismo, internazionalizzazione, ricerca del dialogo a ogni costo sono elementi identitari della nostra politica estera.
Nella contemporaneità – e sempre più nel futuro prossimo – la politica estera è solo in parte il prodotto delle élite politiche o diplomatiche. Le grandi reti che attraversano il mondo dell’economia, dei media, della cultura, della ricerca, e gli stessi cittadini rivendicano un ruolo sempre maggiore nella definizione degli indirizzi di politica estera; ciò nella consapevolezza dell’incidenza che essa può avere sulla loro sicurezza e prosperità. Nel dibattito politico prevale spesso una visione limitata e utilitaristica degli interessi nazionali, proprio per l’assenza della cornice di fondo nella quale vanno collocati.
Non è più solo una questione di bipartisanship – che pure resta uno dei nodi irrisolti della nostra politica estera – ma è una questione più ampia di maturazione del dibattito pubblico italiano sui temi internazionali. Un dibattito che, per essere veramente costruttivo, deve finalmente compiere un salto di qualità nel senso della ‘educazione alla complessità’ e della comprensione del ruolo che l’Italia e l’Europa possono e devono svolgere nel mondo; della posta in gioco per tutti noi; e infine del sistema di principi e regole nei quali ci riconosciamo e che soli possono assicurare autorevolezza, coesione e efficacia alla nostra azione.
Questo articolo, che riprende alcuni dei concetti del saggio “A Brave New World Disorder” pubblicato nel volume The Road Ahead – The 21st Century World Order in the Eyes of Policy Planners (Fondazione de Gusmao 2018), è stato realizzato nell’ambito dell’Osservatorio IAI-ISPI sulla politica estera italiana. Le opinioni espresse dall’autore sono a lui solo riconducibili e non impegnano in alcuna maniera l’amministrazione di appartenenza.