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12 giorni di proteste contro l'Fmi

Ecuador: il racconto della guerriglia urbana a Quito

17 Ott 2019 - Francesco Mattioni - Francesco Mattioni

Per la prima volta dopo dodici giorni di scioperi e forti proteste, Quito si è risvegliata senza spari, scoppi e colonne di fumo nero. Nella sera di domenica 13 ottobre, il governo dell’Ecuador e i dirigenti della Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (Conaie), hanno raggiunto un accordo per la deroga del decreto 883 – il provvedimento che sopprimeva il contributo statale per l’acquisto di carburanti, colpendo soprattutto i cittadini comuni con l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici e privati e il rincaro della maggior parte dei servizi di base.  L’intesa ha posto fine a quasi due settimane di manifestazioni violente e dure repressioni da parte delle forze dell’ordine.

Al grido di “Fuera, Moreno fuera!”, si sono scatenate in tutto il paese le proteste contro l’attuale presidente, Lenín Moreno, e il paquetazo, il pacchetto di misure e riforme in campo economico approvato lo scorso 2 ottobre, che segue l’accordo tecnico del 20 febbraio 2019 stipulato tra il governo ecuadoriano e il Fondo  monetario internazionale (Fmi) per un prestito di 4.2 miliardi di dollari.

Un vero e proprio “programma economico” per ricevere aiuti da Fmi, Banca Mondiale, Banco de Desarrollo de América Latina, il Banco Interamericano de Desarrollo, la Banca europea degli investimenti, Agenzia francese per lo sviluppo e Fondo de Reserva Latinoamericano, che indebiterà l’Ecuador per più di 10 miliardi di dollari, vincolandolo a questi enti finanziari con pagamenti per i prossimi 30 anni.

© Francesco Mattioni

Come risposta al paquetazo, i settori della popolazione più colpiti hanno cominciato una serie di proteste, a partire dallo sciopero dei trasporti, diretti interessati dall’aumento dei carburanti, lo scorso 3 ottobre, che ha paralizzato le più importanti vie di comunicazione del paese.

In un primo momento, il governo e i media nazionali hanno liquidato le proteste e lo sciopero come esclusivi del settore dei trasporti – sottovalutandone di proposito la portata di carattere popolare.

Nonostante il ritiro dei transportistas dallo sciopero a oltranza e il parziale ripristino della circolazione dei mezzi pubblici nella capitale Quito, le proteste non si sono fermate. Anzi. Le principali arterie del paese sono rimaste bloccate, i supermercati e i magazzini non sono stati riforniti per più di una settimana, le scuole e gli uffici hanno sospeso le loro attività. Alle manifestazioni, poi, si sono aggiunti saccheggi, atti vandalici e incendi in tutto l’Ecuador.

Il governo a Guayaquil e il contrattacco di Moreno
Il centro di Quito è diventato teatro di scontri sempre più violenti tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Dalla sera di domenica 6 ottobre, infatti, polizia e militari si sono barricati nel cuore del centro storico, a difesa della Plaza Grande e del Palacio de Carondelet, sede del governo e residenza ufficiale del presidente della Repubblica.

Lunedì 7 ottobre, comunque, il presidente Moreno ha lasciato la capitale, riparando a Guayaquil – città costiera e secondo centro del Paese per importanza –, dove ha spostato temporaneamente la sede e le attività del governo. In un breve discorso a reti unificate, poi, Moreno ha ribadito come dietro le proteste che hanno piegato il Paese ci fossero secondo lui il presidente venezuelano Nicolás Maduro e l’ex presidente ecuadoriano ed ex alleato dello stesso Moreno, Rafael Correa, accusati di voler destabilizzare il governo.

In realtà, l’opposizione al presidente Moreno e all’Fmi era abbastanza disomogenea e non necessariamente correista. Giovani, studenti, ma soprattutto comunità di indigeni, che sono arrivati da ogni provincia della Sierra, marciando a piedi, stipati su camioncini o sul cassone di un furgone.

La Conaie, infatti, ha convocato tutte le nazionalità e le organizzazioni indigene, invitandole a marciare sulla capitale. La base della protesta si è andata così rafforzando in maniera sostanziale, grazie anche all’arrivo, negli ultimi giorni, di colonne di indigeniprovenienti dall’Amazzonia.

© Francesco Mattioni

La (tentata) presa del Palacio de Carondelet
Per una settimana, i manifestanti si sono avvicinati al Palacio de Carondelet, conquistando terreno di giorno e perdendolo con l’approssimarsi della sera, affrontando le forze dell’ordine nelle strette viuzze del centro, armati di pietre e mattoni staccati dalle pareti o dal pavimento stradale, molotov, pali e scudi improvvisati.

La polizia ha sempre respinto gli assalti avvalendosi di agenti in moto, reparti antisommossa, mezzi blindati e persino cavalleria, impiegando dosi massicce di gas lacrimogeno e bombe carta per spezzare i cortei e sedare quella che ogni giorno sembrava assumere di più i tratti di una guerriglia urbana.

Con il radicalizzarsi delle proteste, si sono contati i primi morti tra le fila dei manifestanti – sarebbero 8 secondo le fonti ufficiali – mentre il numero degli arresti è salito a più di mille. Giovedì 10 ottobre si è tenuto nei pressi della Casa della Cultura – la base operativa degli indigeni – il corteo funebre di un dirigente indigeno caduto negli scontri.

In seguito all’invito del presidente Moreno al dialogo con la dirigenza indigena, l’11 ottobre i manifestanti si sono riuniti attorno all’Asamblea Nacional. L’atmosfera era pacifica e di attesa, chi cantava, chi ballava e chi addirittura lanciava cibo e acqua ai militari. Poi, proprio quando l’intesa pareva cosa fatta, la polizia ha cominciato a sparare gas lacrimogeno sulla folla, disperdendola. Dopo attimi di stordimento e incredulità, gli indigeni si sono riorganizzati e sono passati al contrattacco, guadagnando alcune posizioni e combattendo fino a notte fonda.

La mattina di sabato 12 ottobre, alcuni manifestanti hanno incendiato un edificio governativo e la sede di un noto canale televisivo. Data l’escalation delle violenze e il protrarsi delle manifestazioni, il presidente Moreno, “per ristabilire l’ordine nel paese”, ha indetto il coprifuoco a partire dalle 15 in tutto il distretto metropolitano della capitale e nei siti strategici del Paese, dando inoltre il via libera all’intervento delle Forze Armate e, di fatto, militarizzando la città di Quito.

Proprio nei giorni precedenti, il movimento indigeno aveva preso le distanze dalle violenze e dal cosiddetto “attore esterno”, ovvio riferimento all’ex presidente Rafael Correa, indicato a più riprese dall’esecutivo e dalla stampa nazionale come il principale mandatario delle proteste. Ciò ha contribuito a facilitare il dialogo con il governo, che pure aveva aperto alla possibilità di rivedere il decreto 883.

La vittoria del Pueblo unido
Domenica, la svolta, quando l’esecutivo e i dirigenti del Conaie si sono riuniti, in diretta nazionale, con la mediazione delle Nazioni Unite. Dopo lunghe ore di attesa, verso le 21:45 l’annuncio dell’accordo raggiunto e dell’accantonamento del decreto 883, che sarà sostituito da un nuovo decreto della cui stesura si incaricherà una commissione ad hoc, formata dai leader delle organizzazioni indigene, dal governo e coadiuvata dalle Nazioni Unite.

Per la prima volta, l’unione di indigeni, giovani, studenti e volontari, ha fatto sì che un provvedimento ingiusto, che avrebbe danneggiato tutto il popolo ecuadoriano a vantaggio degli istituti di credito internazionali, venga rimosso e nuovamente redatto con la partecipazione dei rappresentanti degli strati più poveri della popolazione. Non a caso, uno degli slogan più cantati durante le manifestazioni era “¡El pueblo unido, jamás será vencido!”.

Foto di copertina © Francesco Mattioni