Ecuador: il paquetazo della discordia sconfitto dalla piazza
Il recente annuncio del presidente Lenín Moreno riguardo un piano di riforma economica improntata all’austerità ha avuto come conseguenza dure proteste che hanno interessato le maggiori città dell’Ecuador. I manifestanti, dopo almeno dieci giorni di scontri con le forze dell’ordine e capeggiati dai leader indigeni, sono infine riusciti ad ottenere un negoziato con il governo, che ha ceduto e si è trovato obbligato a sostituire il decreto di riforma.
Il piano di riforme strutturali annunciate da Moreno il 2 ottobre ha generato violente manifestazioni su tutto il territorio nazionale. Il paquetazo – come è stato ribattezzato dai manifestanti – si compone di una serie di misure economiche volute dal Fondo monetario internazionale (Fmi) in cambio di un credito di 4,2 miliardi e prevede, tra le altre cose, la soppressione del sussidio statale sui combustibili. Si tratta di un sussidio in vigore dagli anni Settanta che aveva tradizionalmente permesso di mantenere i prezzi del carburante relativamente bassi. La sua abolizione, che aveva creato frustrazione inizialmente solo intorno agli interessi dei lavoratori dei trasporti (camionisti, tassisti e autisti di autobus e trattori), ha infine generato un malcontento generale diffuso tra l’intera popolazione.
Un asse dagli autotrasportatori agli indigeni
Il 3 ottobre, la Fenacotip (Federazione nazionale delle cooperative del trasporto pubblico) ha avviato uno sciopero nazionale e varie azioni di protesta che, sostenute da organizzazioni civiche e studentesche, dai movimenti sociali e dai gruppi che rappresentano la popolazione indigena, sono presto sfociate in violenti scontri nella capitale Quito e a Guayaquil, centro economico dell’Ecuador. A seguito degli scontri, Moreno ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale per una durata di 60 giorni, poi ridotti a 30 tramite convalida della Corte costituzionale.
Le proteste, che hanno preso di mira i palazzi di governo e che hanno visto come risposta una durissima repressione delle forze dell’ordine ecuadoriane, hanno provocato centinaia di arresti e di feriti. Ad oggi sette persone risultano morte durante gli scontri; secondo i manifestanti sarebbero almeno dieci.
A seguito dell’annuncio di numerose sigle sindacali, delle realtà dell’associazionismo militante, dei collettivi studenteschi e dei gruppi indigeni di uno sciopero generale per il 9 ottobre, la sede governativa è stata preventivamente spostata da Quito a Guayaquil. Dello stesso giorno è l’annuncio, da parte del ministero dell’Energia, della sospensione delle operazioni in tre giacimenti petroliferi nel nordest del Paese, i cui campi sono stati occupati da gruppi di attivisti provocando una perdita di almeno dieci milioni di dollari.
L’8 ottobre un gruppo di manifestanti è riuscito a divellere le barriere protettive e ad accedere all’interno del palazzo dell’Assemblea Nazionale a Quito, poco dopo sgomberato dalla polizia. Per tutta risposta, Moreno ha dichiarato un coprifuoco nelle aree che circondano gli edifici governativi ed altri siti sensibili, compresi aeroporti e raffinerie, in vigore tra le 20:00 e le 05:00.
Alle proteste iniziali, portate avanti dai soli autotrasportatori, si sono presto aggiunte le rivendicazioni delle fasce sociali più svantaggiate della popolazione, delle associazioni studentesche e soprattutto della comunità indigena, il che ha posto Moreno in una situazione piuttosto scomoda. I gruppi indigeni – in particolare la Conaie, l’influente confederazione delle comunità indigene ecuadoriane – furono i principali responsabili delle dimissioni dei presidenti Jamil Mahuad nel 2000 e di Lucio Gutierrez nel 2005.
Moreno manda il soffitta il socialismo del XXI secolo
Moreno, in netto calo di consensi, si è imposto di misura nel voto presidenziale del 2017 tra le file del partito di governo Alianza País. Una volta in carica, si è progressivamente allontanato dalle politiche portate avanti dal suo precedessore Rafel Correa, di cui è stato vice dal 2013 al 2017 e dal quale fu sponsorizzato come continuatore della Revolución Ciudadana, progetto politico per un “socialismo del XXI secolo”. Lungi dal salvaguardare l’alleanza bolivariana e dal proseguire politiche che puntavano su massicci investimenti nel settore pubblico, Moreno ha tuttavia rotto con Venezuela e Bolivia, rimosso dagli incarichi la maggioranza dei correistas e nominato l’affarista Richard Martínez come ministro dell’Economia. Segnalando così l’intenzione di ridisegnare le politiche macroeconomiche del suo predecessore e perseguendo la stessa tramite misure tese alla considerevole limitazione della spesa pubblica.
I manifestanti, dopo più di dieci giorni di scontri con le forze dell’ordine nei territori di tutto il Paese e capeggiati dai leader indigeni, sono riusciti ad ottenere un negoziato con il governo, che ha ceduto e si è trovato obbligato a sostituire il decreto di riforma. Con l’intermediazione di Chiesa e Onu, il tavolo di dialogo tra governo e movimenti ha sancito l’immediato ritiro del piano di riforme economiche e la creazione di una nuova commissione mista che avrà il compito di redigere un nuovo decreto attuativo che tenga in conto le rivendicazioni dei manifestanti.
Quito in un’America Latina che cambia volto
Fondamentale è inserire le proteste in Ecuador nel quadro politico regionale. Area dagli equilibri politici in assestamento, l’America Latina ha recentemente assistito a una netta virata a destra aggravata con l’elezione di Mauricio Macri in Argentina (in difficoltà in vista dell’appuntamento con le urne il prossimo 27 ottobre) e quella di Jair Bolsonaro in Brasile. La significativa vittoria di Andrés Manuel López Obrador in Messico dell’anno scorso e la netta affermazione del kirchnerismo alle primarie presidenziali argentine di questo agosto – tradizionale anticamera del voto vero e proprio – hanno tuttavia dato una nuova spinta propulsiva al progressismo latino-americano, che anche in Ecuador dimostra un deciso rifiuto del ritorno alle ricette del Fondo monetario internazionale.
Le elezioni di Argentina, Uruguay e Bolivia di questo mese saranno decisive in tal senso e potrebbero segnare l’inizio di una nuova marea rosa nel subcontinente.
Foto di copertina © Juan Diego Montenegro/DPA via ZUMA Press