Al-Baghdadi: Turchia si muove tra Oriente e Occidente
Non sappiamo se la nuova Commissione europea, e in particolare il successore di Federica Mogherini nella conduzione della politica estera dell’Unione, si cimenterà o meno nel recupero di una interlocuzione con la Turchia, magari solo ripristinando un dialogo assieme a russi e americani per la sistemazione degli assetti siriani. Lo auspichiamo. Ma quello che sappiamo è che, nel frattempo, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta compiendo una serie di passi che si scostano dall’Europa – in tempi non lontani principale direttrice della proiezione esterna turca – e volgono ad Oriente, poggiando sul passato ottomano e sulle numerose comunità turcofone nel tragitto verso Russia e Cina.
Non si tratta solo del gasdotto Turkish Stream, che attraverso il Mar Nero collega la Turchia con il bacino russo degli idrocarburi, dell’acquisto di missili S-400 di fabbricazione russa, paradossalmente concepiti in funzione anti-Nato, della centrale nucleare di Akkuyu, finanziata e allestita dal colosso russo Rosatom, o ancora delle rivendicazioni di risorse energetiche al largo di Cipro, in nome di una sovranità sulle acque prospicienti Cipro Nord che nessuno le riconosce. Si tratta anche dell’avvicinamento a Russia e Iran nell’ambito della triade di Astana per la Siria, nonché della trappola di Idlib dove Erdogan si è avventurato, appoggiando ribelli infiltrati dagli jihadisti di Tahrir al Sham, e infine della zona-cuscinetto rivendicata per allontanare dal confine i curdi del Rojava e ricollocarvi i 3,6 milioni di rifugiati arabi rivelatisi costosi e socialmente ingombranti, gestita (per ora) con la Russia ai sensi degli accordi di Sochi del 22 ottobre.
Si tratta di una politica ‘multivettoriale’ che non rinnega l’Alleanza atlantica né l’Unione europea, ma al contempo guarda a Est dove Ankara, oltre a riscontrare vistose assonanze sul piano della conduzione della politica interna, punta ad aprirsi opportunità economiche, commerciali, finanziarie e non ultimo di sicurezza. Ankara è alla prese da un lato con la sua sete di energia e dall’altro con i suoi problemi interni ed esterni di sicurezza. Russia, Iran, Repubbliche centro-asiatiche e Cina possono soccorrerla.
L’avvicinamento alla Cina
Erdogan non nasconde, ma anzi dichiara fin dal 2017 l’aspirazione ad entrare a pieno titolo, a partire dal partenariato di dialogo concluso nel 2013, nella Shanghai Cooperation Organisation a guida cinese-russa, comprendente Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan e di recente ampliatasi a India e Pakistan (2017), con l’Iran come osservatore. E ritiene, a giudicare dall’intervento al vertice di Islamabad nel marzo 2017, che l’Organizzazione per la Cooperazione economica, cui aderiscono Iran, Pakistan, Azerbaigian e le cinque Repubbliche centro-asiatiche, debba ormai ‘badare a se stessa’ sia sul piano economico, commerciale e delle connessioni infrastrutturali, che su quello della gestione dei focolai di crisi in area.
Quanto alla Cina, Erdogan sta lavorando per una ‘partnership strategica’ nel contesto della Nuova Via della Seta, a partire da investimenti nel settore infrastrutture, trasporti, porti, tecnologia delle telecomunicazioni e non ultimo nucleare-civile. La Cina è diventata il secondo partner commerciale dopo la Germania e gli investimenti cinesi concernono oltre 850 aziende in Turchia.
L’allontanamento dall’Unione europea
Questi sviluppi sono andati di pari passo con il progressivo deterioramento dei rapporti con l’Ue, che da anni registrano uno stallo nei negoziati di adesione nonché ripetute critiche del Parlamento europeo per la “profonda erosione dello stato di diritto” e per i comportamenti turchi, tra cui le repressioni conseguenti alla vicenda Gulen nel 2017 e da ultimo l’offensiva nel Rojava siriano.
Con qualche ritardo, l’Occidente sta correndo ai ripari. La Turchia è pur sempre un alleato Nato, pur sempre un ineludibile presidio negli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, via obbligatoria di transito per Mosca se vuole raggiungere le basi militari nel Mediterraneo assicuratele da Bashar Al-Assad; e infine pur sempre un imprescindibile fattore da considerare negli assetti del Medio Oriente, nonché nella stabilizzazione di Libia e dintorni.
Il rapporto con Washington
La Turchia di Erdogan ne è ben consapevole da tempo, anche prima di essere diventata contenitore di migranti per conto dell’Unione europea nel marzo 2016. La collaborazione con Ankara è preziosa per Europa e Stati Uniti. Così si spiega, dopo anni di frizioni, la ‘luce verde’ di Trump all’offensiva turca nel Rojava e la tenue reazione europea che ne è seguita. Vi è anzi da chiedersi se la decisione del 6 ottobre di optare per la Turchia assecondandone l’offensiva contro i curdi – preceduta peraltro da un’intesa bilaterale in agosto – non abbia a che fare anche con la necessità di ‘neutralizzare’ il potenziale della Turchia nella prospettiva della partita prioritaria sul versante del contenimento dell’Iran e della libera navigazione degli Stretti di Hormuz e Bab El Mandeb.
Una opzione, quella di Washington, che Ankara ha da ultimo corrisposto collaborando per l’eliminazione di Al-Baghdadi a Idlib, area infiltrata dai jihadisti di Tahir Al Sham, che era già stata oggetto di un accordo di cessate-il-fuoco e sgombero con Mosca, rimasto non a caso disatteso. Trump ha ringraziato. Mevlut Cavusoglu ne ha rivendicato il merito (peraltro, per stessa ammissione americana, condiviso con i curdi), con auspici per il futuro. Nel frattempo, Mosca e Assad si sono posizionati ai confini.
Si tratta ora di vedere se, tra mille oscillazioni, Washington manterrà in Siria una presenza militare, magari sotto forma di contrasto alle sacche di terrorismo residuale o di protezione dei (modesti) giacimenti di Qamshili e Der-er-Zoor, o se lascerà interamente alla Russia l’onere di gestire la Turchia. Impresa non facile, perché le intese di Sochi prevedono, con il ritiro dei combattenti curdi, un pattugliamento congiunto entro la Siria (per soli 10 km), ma non una presenza permanente di forze turche. L’idea è garantire la protezione dei confini e cioè la Turchia dai curdi e i curdi dalla Turchia. A questo serviva, a prescindere dalle intenzioni, la presenza militare Usa a Manbjii.
Idealmente, sarebbe ipotizzabile un contingente di Caschi blu, promosso da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza e partecipato dalla stessa Turchia, in qualità di forza di interposizione con poteri di ‘enforcement’, ai sensi del capitolo VII della Carta Onu. Quale complemento al Comitato costituzionale finalmente deciso a New York a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in settembre, in seno al quale si dovrebbero negoziare gli equilibri interni ed esterni della nuova Siria. Se finora questa formula non è emersa, significa che la vicenda siriana, e più in generale mediorientale, è tutt’altro che conclusa. E che la Turchia continuerà a ricercare garanzie mediante il gioco delle due carte, Oriente e Occidente, porgendosi al migliore offerente.