Afghanistan: presidenziali, sfida talebani e bassa affluenza
Il 28 settembre gli afghani sono stati chiamati ad eleggere il nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Molto bassa l’affluenza – meno di due milioni sugli oltre nove milioni e mezzo di cittadini iscritti nelle liste elettorali –, numerosi gli afghani cui è stato negato il diritto al voto a causa di errori di trascrizione o malfunzionamento dei sistemi di riconoscimento biometrico forniti dagli Stati Uniti. Molte le denunce di brogli e irregolarità. Un voto, quello del 28 settembre, che non è stato rappresentativo dell’Afghanistan, bensì delle sole aree urbane, cioè quelle in cui i talebani non hanno potuto imporre la chiusura dei seggi elettorali, come invece sono riusciti a fare in quelle rurali e periferiche.
I travagliati percorsi elettorali afghani
Il 19 ottobre sono attesi i primi risultati non definitivi, il 7 novembre quelli ufficiali. Almeno queste sono le intenzioni. Ma è sufficiente guardare alla precedente esperienza elettorale, quella del 2014, per considerare probabili tempi molto più dilatati: allora occorsero sei mesi per giungere a un accordo tra i due principali candidati.
Quello del 28 settembre è stato un appuntamento, oltretutto, posticipato due volte rispetto alla data prevista del mese di aprile. Nulla di nuovo sul fronte afghano, considerando che quasi nessun appuntamento elettorale degli ultimi 14 anni ha rispettato la data prevista, dalla prima elezione che portò Hamid Karzai a ricoprire il ruolo di presidente eletto.
Ma le elezioni presidenziali del 2019 si inseriscono all’interno di un quadro politico incerto e sempre più insicuro a causa di una guerra quarantennale di cui l’ultima parte in atto da 18 anni: da una parte, il sempre più debole governo afghano al cui fianco ci sono gli Stati Uniti e la Nato; dall’altra parte, i gruppi insurrezionali, tra cui quello maggioritario dei talebani e quello potenzialmente più pericoloso dello Stato islamico Khorasan – franchise afghano del gruppo terroristico che si è imposto a partire dal 2014 in Iraq e Siria.
I due principali candidati alla presidenza: Ghani e Abdullah
Il presidente uscente, Ashraf Ghani, è dato per favorito. Il suo principale avversario, e attualmente primo ministro esecutivo, Abdullah Abdullah lo segue, ma con poche chance di vincere. Comunque vada, il risultato elettorale potrebbe consegnare al Paese una guida che consenta di uscire dall’empasse politico causato dall’accordo post elettorale del 2014 in cui i due antagonisti, Ghani e Abdullah, rifiutando di riconoscere l’altro in caso di vittoria, accettarono di condividere il potere. Una soluzione che, se nel breve periodo scongiurò l’ipotesi di una ancora più pericolosa fase di guerra civile, consegnò di fatto il Paese all’ingovernabilità cronica a causa di una diarchia basata sulla competizione permanente.
Oggi, dopo cinque anni, la situazione è sensibilmente peggiorata. Le competizioni tra i gruppi di potere si sono trasformate in conflittualità aperte e manifeste. A ciò si uniscono i fisiologici problemi organizzativi di una macchina elettorale che fatica a dimostrarsi efficace, confermando le vulnerabilità già emerse in occasione dei precedenti appuntamenti.
Già prima del voto s’è registrata una significativa riduzione del numero di elettori chiamati ad esprimere la loro preferenza – a causa delle ampie aree di territorio cadute sotto il controllo talebano che hanno ridotto i seggi elettorali aperti al 31 per cento del totale – e c’è stato un aumento degli attacchi violenti dei talebani contro i seggi elettorali e le forze di polizia ed esercito: solo il giorno delle elezioni ne sono stati registrati circa 400, fortunatamente con un limitato numero di morti e feriti. Anche i candidati hanno denunciano brogli e forzature: lo stesso Abdullah, prima della giornata elettorale, ha accusato il presidente Ghani di avere fatto chiudere “per sicurezza” i seggi nelle aree favorevoli alla coalizione che lo sostiene.
In tale quadro, le forze di sicurezza afghane, nonostante l’immane sforzo da parte degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica, non hanno capacità operativa funzionale a contenere gli insorti, sono afflitte da perdite sul campo e diserzioni e per un terzo sono giovani reclute che non hanno completato il ciclo addestrativo di base. Il rischio non è quello di un collasso delle forze di sicurezza nazionali, bensì di un loroo progressivo deterioramento e di una frammentazione su base etnica e geografica.
La questione aperta: il negoziato con i talebani
Media e analisti hanno parlato di “dialogo di pace” con i talebani. In realtà non è in corso e non lo è mai stato alcun dialogo di pace. Al contrario è attivo un processo negoziale tra gli Stati Uniti, intenzionati a disimpegnarsi dalla guerra più lunga mai combattuta da Washington e dalla Nato, e il principale tra i gruppi insurrezionali in Afghanistan: i talebani. Dialogo dal quale è stato escluso il governo afghano.
Ma tali negoziati non sono iniziati con il presidente Donald Trump, bensì risalgono all’ormai lontano 2007, quando i primi emissari del governo afghano, allora guidato da Hamid Karzai, decisero di sedersi al tavolo con i seguaci del mullah Mohammad Omar, l’allora capo talebano (poi deceduto nel 2013), per trovare una soluzione a una guerra che si stava palesando come “impossibile da vincere”.
L’ultima fase negoziale, quella che gli analisti stanno osservando oggi focalizzando l’attenzione sugli incontri di Doha in Qatar iniziati nel 2012, si è aperta nel 2018, con un’accelerazione imposta dall’Amministrazione Usa a partire da gennaio di quest’anno.
Gli Usa si sono mostrati oggi molto più propensi a maggiori concessioni che in passato e, in linea con le precedenti amministrazioni (da George W. Bush a Barack Obama), in stretta aderenza alle scadenze elettorali statunitensi: una dinamica comune che ha avuto effetti deleteri in termini di gestione della “lunga guerra” e definizione delle strategie per portarla a termine. Tuttavia, gli Stati Uniti non sono oggi disposti ad accettare un totale disimpegno militare. In questo ultimo round negoziale si è assistito ad un primo passo avanti per arrivare a un cessate il fuoco: nodo del contendere è stata la scelta di una data per il disimpegno Usa, che i talebani volevano fissare entro l’anno mentre gli Stati Uniti entro 18 mesi.
Ma l’8 settembre, il presidente Trump (via Twitter) ha chiuso le porte – benché solamente in apparenza – ai talebani, annunciando lo stop dei negoziati in corso che si sarebbero dovuti concludere a Camp David, nel Maryland, alla presenza dei delegati talebani e del presidente Ghani (ma in due eventi separati).
Che cosa c’è dietro lo stop di Trump
Formalmente la scusa della messa in stand by dei negoziati è stata la rivendicazione talebana di un’azione terroristica che ha portato alla morte di un soldato statunitense a Kabul. Ma è evidente che c’è molto di più: Trump, deciso a portare a casa un risultato a fini elettorali (anche negli Usa le presidenziali incombono), potrebbe essere stato convinto a desistere dall’iniziativa per ragioni di opportunità.
In primis deve aver pesato la posizione di svantaggio con cui gli Stati Uniti parevano voler accettare le richieste dei talebani – che ben hanno compreso la fretta di Trump nel disimpegnarsi dal pantano afghano -. In secondo luogo, è evidente che con l’uccisione del soldato statunitense rivendicata dai talebani sarebbe stato difficile giustificare all’opinione pubblica l’ospitalità riservata ai talebani negli Usa, soprattutto se si considera che tutto sarebbe avvenuto a tre giorni dall’11 Settembre.
Dunque, Trump ha imposto una pausa al processo negoziale, ma è evidente che si tratta di una mossa strategica, uno stop and go per aumentare la pressione sugli interlocutori. L’effetto di questa scelta? Lo si legge nei numeri: i talebani hanno aumentato la pressione sul governo di Kabul con attacchi suicidi ‘spettacolari’ nelle principali aree urbane, attacchi diretti contro i seggi elettorali e le istituzioni, in particolare esercito e polizia. Talebani che, alzando il tono sul piano mediatico e della propaganda, hanno accusato Stati Uniti e governo afghano di non volere la pace e definito le elezioni presidenziali come una sfida. Una sfida che i talebani hanno confermato di voler affrontare con rinnovata energia e volontà distruttiva.