Vaticano: papa Francesco ritrova la sua Africa
Nella vastità territoriale di un impero, la differenza tra politica interna e politica estera è sfumata. Ancor di più lo è in un impero tanto particolare quanto quello della Santa Sede, dove alla dimensione terrena si associa, in posizione sovraordinata, quella spirituale. In quest’ottica occorre leggere – come in un combinato disposto – il viaggio in Africa australe di papa Francesco – che, partito il 4 settembre, visiterà in ordine Mozambico, Madagascar e Mauritius – e l’annuncio di qualche giorno fa su un nuovo concistoro – il sesto di Bergoglio – che porterà alla nomina di tredici cardinali, dieci dei quali elettori a pieno titolo per il prossimo conclave.
La geopolitica dello spirito soffia sul prossimo concistoro
Nel suo viaggio, Francesco porterà avanti la sua agenda internazionale. La “Chiesa in uscita” che guarda alle periferie del mondo farà tappa nella ex colonia portoghese del Mozambico, dove i cattolici sono poco più di 7 milioni, e nelle due isole di Madagascar e Mauritius, che insieme ne contano altrettanti. Numeri di per sé non imperiali, ma che fanno riflettere se osservati in prospettiva: nell’Africa subsahariana, dal 1900 al 2011, il numero dei cristiani è aumentato di circa settanta volte, passando da 7 a 470 milioni di credenti. Insieme all’Asia, dove la diplomazia pontificia e l’attività pastorale si sono mosse con grande decisione, l’Africa nera rappresenta, potenzialmente, uno dei bacini più fertili. Del resto, entro il 2050, il continente raddoppierà la propria popolazione, arrivando sino a due miliardi e mezzo di individui.
Anche per questo, considerare le nomine dei nuovi cardinali elettori come questione a parte sarebbe un errore sostanziale. Nel concistoro del prossimo 5 ottobre si assisterà, infatti, ad un’altra, significativa infornata di porporati provenienti “dalla fine del mondo”, come disse di sé lo stesso Bergoglio. Da Cuba, dall’Indonesia, dal Guatemala e dal Congo: le origini di alcuni dei futuri cardinali confermano il trend dei concistori di papa Francesco, funzionali al processo di riforma del conclave portato avanti dal pontefice argentino. Obiettivo è quello, finalmente, di far oltrepassare alla Chiesa cattolica il limes romano che, spesso, l’ha limitata nella sua missione universale, riducendola a mera appendice del sistema occidentale. Destino al quale papa Francesco non vuole assolutamente piegarsi.
La potenza simbolica del Mozambico
Bergoglio torna in Africa sulle orme di papa Giovanni Paolo II. Fu Karol Wojtyla, infatti, l’ultimo papa che visitò Mozambico, Madagascar e Mauritius, a cavallo tra il 1988 e il 1989. Un’altra epoca, soprattutto per il primo, in quegli anni ancora attanagliato dalla guerra civile cominciata subito dopo il raggiungimento dell’indipendenza dal Portogallo nel 1975. Per oltre quindici anni, il Frente de Libertaçao de Moçambique (Frelimo) di ispirazione socialista e la Resistência Nacional Moçambicana (Renamo), nata come coalizione anticomunista sostenuta dai Paesi segregazionisti (Sudafrica e Rhodesia del Sud), hanno combattuto per il predominio. A porre fine al conflitto furono gli Accordi di pace di Roma, siglati nel 1992 dalle due forze mozambicane dopo oltre due anni di mediazione, condotta prevalentemente dall’ex sottosegretario agli Esteri italiano, Mario Raffaelli, e dalla Comunità di Sant’Egidio, rappresentata da Andrea Riccardi e dall’attuale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. Che, guarda caso, sarà uno dei dieci cardinali elettori che si insedieranno ad ottobre.
Oggi, in Mozambico, Francesco trova una democrazia ancora fragile ed immatura. Alle soglie delle elezioni presidenziali che si terranno il mese prossimo, le ostilità tra Frelimo e Renamo – per la verità già riaffiorate in modo sparso dal 2012 – sono riprese, seppur a bassa intensità. Per questo, il messaggio di Bergoglio è quello di pace e riconciliazione: visto che la diplomazia vaticana, in Mozambico, gode di ampio favore, il pontefice spera di riaffermare i principi che ormai quasi trent’anni fa posero fine alla guerra civile. Ma non solo: anche la difesa dell’ambiente, tanto in Mozambico – colpito a maggio da un terribile ciclone – quanto in Madagascar, sarà al centro dei discorsi che Francesco pronuncerà durante il suo viaggio.
Una Chiesa universale e rappresentativa
Come detto, la particolare attenzione del pontefice verso il sud del mondo – di cui Mozambico, Madagascar e Mauritius fanno parte a pieno titolo – non si esaurisce nella sola politica estera vaticana. Se si considera la famosa Brandt Line, la linea che divide in due il mondo sulla base del Pil pro capite teorizzata negli anni Settanta dal cancelliere tedesco Willy Brandt, sui settanta cardinali elettori creati da Bergoglio, più di metà (38) provengono dal sud globale.
Il progetto di politica domestica di Francesco è chiaro: la riforma del conclave con l’inserimento di porporati che siano rappresentativi delle comunità cattoliche sparse per il mondo. Comprese quelle più piccole, come quella malgascia, che può contare sulla presenza di Désiré Tsarahazana, arcivescovo di Toamasina e presidente della Comunità episcopale del Madagascar. Anche lui sarà tra i porporati che voteranno per il prossimo pontefice.
Non solo, quindi, creare i collegamenti tra Roma e le periferie geografiche dell’impero, ma anche e soprattutto includere queste ultime nel circuito decisionale. Liberandolo così dall’asfittico romanocentrismo, che rischia di indurre il resto del mondo a considerare l’azione internazionale della Santa Sede come longa manus occidentale. Esser rinchiusi nel recinto euroatlantico, per la Santa Sede, significherebbe del resto perdere la propria irrinunciabile vocazione imperiale.
Foto di copertina © Gioia Forster/DPA via ZUMA Press