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Quando storia e attualità s'intrecciano

Noi e l’Africa: colonie e schiavi, il passato del presente

2 Set 2019 - Lorenzo Kamel - Lorenzo Kamel

Può sembrare paradossale che alcuni dei popoli e delle etnie che più hanno sofferto – e continuano a subire – i risvolti del colonialismo moderno siano legati a un passato che affonda nello sfruttamento sistematico di milioni di schiavi.

Si pensi ad esempio al caso degli arabi, che tra il 650 e il XIX secolo hanno deportato oltre nove milioni di schiavi africani al di fuori del continente, in particolare in direzione dell’Arabia e delle regioni limitrofe, ma anche, in misura minore, dell’India e dell’Estremo Oriente.

Una conferma indiretta di ciò può essere rintracciata in Taʾrīkh al-rusul wa l-mulūk (‘Storia dei profeti e dei re’), il manoscritto nel quale lo storico iraniano Ṭabarī descrisse la rivolta degli Zanj, una cruenta ribellione innescata a Bassora (Iraq meridionale) da schiavi neri originari dell’Africa: tra l’869 e l’883 coinvolse l’intera regione e creò serie problemi alla dinastia califfale degli Abbàsidi.

L’espressione “mercanti arabi” di schiavi, dovrebbe essere intesa in senso culturale e non etnico o ‘razziale’. Molto di frequente, infatti, non sussisteva una distinzione netta tra i mercanti arabi e gli africani che essi hanno schiavizzato e venduto.

La cultura ‘swahili’ (dall’aggettivo arabo sawahili, plurale di sawahil, ‘costiero’) – rintracciabile nella costa della Tanzania, del Kenya, del Mozambico e delle aree antistanti presenti nell’Oceano Indiano – è nata ad esempio in larga parte dall’incontro e dal mescolamento dei mercanti arabi con le genti autoctone.

La nascita della schiavitù permanente
Fatte salve queste premesse e senza sminuire gli effetti nefasti dello schiavismo di matrice araba, va però chiarito che è stata la tratta atlantica, ovvero il commercio di circa 12 milioni di schiavi africani verso le Americhe tra il XVI e il XIX secolo, a rappresentare “the largest forced migration in history”.

L’avvio di quest’ultima ha coinciso con una svolta senza precedenti nella storia dell’umanità in generale e del sistema della schiavitù in particolare. È infatti solo con l’avvio della tratta atlantica che l’essere schiavo divenne, per la prima volta nella storia, un tratto permanente.

La qualifica di schiavo divenne infatti ereditaria proprio nel contesto dello sviluppo delle colonie e delle vaste piantagioni – di prodotti molto richiesti, come tabacco, cotone, zucchero e caffè – del Nuovo Mondo.

Al contrario, il sistema sviluppato nei secoli precedenti in Africa e in altre parti del mondo prevedeva che il figlio di uno schiavo non acquisisse ipso facto il medesimo status. In altre parole, quanti venivano fatti schiavi nelle fasi storiche antecedenti all’avvio della tratta atlantica erano socialmente e politicamente ‘mobili’, ovvero non soggetti ad alcun vincolo ereditario di matrice schiavista.

Capitalismo moderno e “spazio atlantico”
La tratta atlantica ha assunto una rilevanza senza precedenti per molteplici altre ragioni. Ha infatti gettato le basi del capitalismo moderno, influenzando in maniera determinante i processi di industrializzazione di larga parte dell’Europa e contribuendo a dare forma all’idea di “spazio atlantico”.

Per converso, ha avuto un effetto nefasto su larga parte dell’Africa, privando ampie aree del continente delle migliori risorse (umane e non), con inevitabili ripercussioni anche in relazione al tessuto sociale delle etnie e delle comunità locali.

La mission civilisatrice
Furono proprio pratiche come lo ‘schiavismo’ ad avere sovente fornito – in particolare dalla metà dell’Ottocento – il pretesto per giustificare l’intervento delle potenze europee in numerose aree dell’Africa. Gli attori che più avevano tratto beneficio dallo sfruttamento di milioni di esseri umani penetrarono contesti come il continente africano con il pretesto di ‘aiutare’ i popoli locali a liberarsi di ‘pratiche inumane’, come appunto lo schiavismo.

Poco importava, agli occhi di molti tra quanti si auto-investivano di tale ‘missione’ (ciò che i francesi chiamarono mission civilisatrice), quanto l’Europa avesse contribuito a sviluppare quelle medesime ‘pratiche inumane’, o il fatto che, ad esempio, un Paese come la Tunisia avesse abolito la schiavitù nel 1846, dunque 19 anni prima degli Stati Uniti (1865).

Ciò che invece interessava, nelle parole di re Leopoldo II del Belgio (1835-1909), era “squarciare l’oscurità che avvolge intere popolazioni [dell’Africa]”, utilizzando il più possibile la religione e le organizzazioni missionarie come una sorta di grimaldello. Caustica l’interpretazione offerta al riguardo dal leader keniota Jomo Kenyatta (1889-1978): “When the [European] missionaries came to Africa they had the Bible and we had the land. They said, ‘Let us pray’. We closed our eyes. When we opened them we had the Bible and they had the land”.

Materie prime e armi
Dietro ai tentativi di ‘illuminare’, ‘indottrinare’ o ‘civilizzare’ le popolazioni autoctone si sono celati alcuni tra i peggiori crimini a danno di civili che siano stati documentati in epoca moderna. Proprio Leopoldo II, il quale negli anni Ottanta dell’Ottocento riuscì a prendere possesso di un’area dell’Africa (odierno Congo e aree limitrofe) 70 volte più grande del Belgio, utilizzò ad esempio la retorica della ‘civilizzazione’ per giustificare il massacro milioni di individui. A decine di migliaia di bambini, accusati di non essere sufficientemente produttivi (molti di essi furono accusati di non avere “raccolto abbastanza gomma”), fece mozzare entrambe le mani.

Sebbene Leopoldo II abbia fatto bruciare larga parte degli archivi contenenti la documentazione relativa alle sue politiche criminali – silenziando dunque una parte significativa della storia della dominazione europea in Africa –, un numero contenuto di diplomatici, missionari e giornalisti riuscì comunque a documentare tali atrocità.

Tra essi il giornalista britannico Edmund Dene Morel (1873-1924), il quale, oltre a fornire prove dei massacri, scoprì che le navi che giungevano in Belgio (ad Anversa) cariche di gomma e avorio, ripartivano verso il Congo con armi e munizioni: un passato che, per alcuni versi, non è mai del tutto passato.

Passato-presente
Grazie anche ai mezzi di comunicazione di massa, politiche come quelle documentate da Morel non sono più pensabili ai giorni nostri. Il ‘prosciugamento’ dell’Africa e l’ ‘inondazione’ del continente con armi di ogni tipo è per contro più attuale che mai. Entrambi gli aspetti, tuttavia, hanno assunto sembianze più sofisticate e/o subdole.

Si pensi ad esempio al fatto che la quasì totalità degli apparecchi elettronici che vengono gettati in Europa finiscono in discariche dislocate in Africa e in Asia, contribuendo ad avvelenare – attraverso il rilascio di arsenico, mercurio e altre sostanze tossiche – il suolo e l’acqua utilizzati da milioni di essere umani.

A ciò si aggiunga che le risorse naturali (petrolio, oro, gas ecc.) presenti nella quasi totalità dei Paesi africani sono pilotati attraverso società off-shore che, in larga misura, sono collegate a imprese e uomini d’affari operanti in Europa e in America.

Paesi come la Francia mantengono il completo controllo delle politiche monetarie di un ampio numero di Paesi africani: un sistema che li vincola a rimanere esclusivamente esportatori di materie prime.

D’altro canto, come ai tempi di Leopoldo II, ancora oggi l’Africa viene inondata di armi di fabbricazione occidentale (e cinese). Come accade in larga parte del Medio Oriente, le risorse naturali presenti nel continente sono oggi sempre più drenate dall’economia civile verso quella militare: anche in questo caso diversi attori europei svolgono il ruolo di co-protagonisti nell’intero processo.

Quando sentiamo invocare slogan facili come “non possiamo accoglierli tutti”, “difendiamo la nostra identità”, “aiutiamoli a casa loro”, “logica buonista”, dovremmo sempre includere nell’equazione il peso della Storia, passata e presente.