Israele: un voto per rinnovare e la parabola di Netanyahu
Dal porticciolo di Akko, l’antica San Giovanni d’Acri (in Galilea occidentale), mentre mi rinfresco con un bicchiere ghiacciato di limone e menta, un gruppo di anziani, di chiare origini sefardite, mi offre uno dei migliori osservatori per provare a capire, dall’interno di Israele, gli scenari del dopo elezioni politiche (le seconde dal 2019). Uno di loro, fiero del suo passato nelle Idf, le forze armate israeliane, si fa vanto del voto accordato all’ex Ramatkal, l’ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz, leader di Blu&Bianco, che con 33 seggi risulta il partito più votato dall’elettorato (comunque in flessione rispetto ai 35 seggi di aprile).
Un altro anziano del gruppo, riferendosi alla situazione attuale del post-voto, in cui nessun partito è riuscito ad ottenere una maggioranza adeguata a guidare la Knesset (61 seggi), ricorda una delle più famose frasi del padre fondatore, Ben Gurion: “In Israele, per essere realisti bisogna credere ai miracoli”.
Ed è proprio un miracolo, o, un gioco di prestigio (per richiamare le doti attribuite al premier uscente Benjamin Netanyahu) di cui oggi ha bisogno dopo il voto un Paese che ha voglia di stabilità e vuole superare mesi di litigi e campagna elettorale violenta puntando a crescere ancora di più nel progresso tecnologico ed industriale, nonostante sia accerchiato ai confini da nemici di ogni sorta.
I dati e i giochi
Un dato interessante che emerge dalle elezioni è che l’affluenza dell’elettorato arabo è salita al 60%, dal 49% dello scorso aprile. Oggi la lista araba dispone di 15 seggi, risultando il terzo soggetto politico sulla scena, e nell’ipotesi di grande coalizione suggerita dal premier uscente (Likud, blocco delle destre ultra-ortodosse con Blu&Bianco) resterebbe fuori dal governo come principale anima dell’opposizione. Tale scenario avrebbe un impatto storico di grande significato: in Israele difatti è prassi che il capo dell’opposizione assista agli aggiornamenti dell’intelligence sulla sicurezza; e se dal 1948 ad oggi non è mai successo che a tali aggiornamenti partecipasse un arabo israeliano qualcosa vorrà pur dire.
Chi rischia di restare (clamorosamente) grande escluso dalle trattative in corso dopo il voto è l’ex ministro della Difesa (ed ex guardaspalle di Netanyahu), Avigdor Lieberman, leader del partito laico e nazionalista Israel Beitenu. Lieberman si è detto favorevole a un governo di unità nazionale che includa anche il Likud, ma senza Netanyahu come premier. Da annunciato ‘game changer’, alla luce delle trattative in corso tra Likud e Blu&bianco ora Lieberman potrebbe restare all’opposizione soprattutto se Gantz riuscisse a convincere il Likud a sacrificare Netanyahu (su cui incombono pesanti accuse di frode e corruzione) in nome di un governo stabile e coeso.
Non resta, quindi, che attendere le determinazioni del presidente della Repubblica Reuven Rivlin che, salvo sorprese, dovrebbe affidare a Gantz l’incarico di formare un nuovo esecutivo al termine delle consultazioni.
Non è solo un problema nazionale
La parabola discendente di Netanyahu è dipesa da una serie di fattori, a cominciare dalle sue stesse scelte politiche, che l’hanno costretto a dipendere sempre più dai partiti ultranazionalisti e ultraortodossi, unici disponibili, per ovvie ragioni d’opportunità, a sostenere qualsiasi governo pur di rimanere nella coalizione di maggioranza. Pertanto è evidente che un esecutivo così oltranzista non rispecchiava più fedelmente l’identità di un Paese caratterizzato da una pluralità di etnie e religioni dove la maggior parte dei partiti è proprio l’espressione di tale diversità.
All’ex premier verranno sempre riconosciuti i meriti di un pragmatismo politico che ha garantito elevati livelli di sicurezza (Israele non ha mai conosciuto nella sua storia un periodo così lungo senza conflitti), una crescita economica costante ed importanti progressi in politica estera, grazie all’apertura del dialogo con alcuni Paesi arabi sunniti moderati e non solo (di ieri la notizia dell’apertura dell’ambasciata armena) e favorito importanti investimenti, attraverso numerosi accordi in campo energetico siglati, in particolare, con alcuni Stati africani ed asiatici.
Ma adesso è evidentemente giunta l’ora di un cambiamento che è destinato ad influenzare anche gli equilibri strategici a livello internazionale e non solo regionale, nonostante Israele sia un Paese piccolo in termini geografici. Basti pensare all’Iran ed alle sue strategie espansionistiche lungo l’asse consolidato Baghdad – Damasco – Beirut – Gaza, ed a quei Paesi arabi moderati che, ufficialmente o ufficiosamente, cooperano con Israele per impedirlo. Oppure, l’Anp, preoccupata da come un’eventuale nuova leadership approccerà l’annosa problematica connessa con i territori occupati (Gantz non ha ancora preso posizione sulla valle del Giordano) e il pericolo terrorismo connesso ad Hamas.
Ed a tal proposito, l’Amministrazione statunitense, sempre più vicina alle elezioni presidenziali del 2020, appare ansiosa di potere vantare almeno un successo sul piano internazionale da fare valere nella campagna elettorale. Proprio in tale ottica, il presidente Donald Trump, dovesse arenarsi il cosiddetto accordo del secolo (su cui parte dei vertici israeliani appaiono scettici), potrebbe spingere per un improvviso avvicinamento verso Teheran, ufficializzando il fallimento delle strategie diplomatiche di Netanyahu.
Anche questo è uno scenario dopo il voto. In attesa di ciò, la politica israeliana è chiamata a dare prova della propria ben nota creatività provando a formare una maggioranza forte anche sul piano internazionale. Sempre che Re Bibi non abbia pronta la sua ultima magia: nuove elezioni, le terze nel 2019, per giocarsi il tutto per tutto e restare sul trono di Israele.