Conte bis: difesa, le missioni internazionali che servono
Questo è il primo di una serie di due articoli scritti da Alessandro Marrone per evidenziare aspetti essenziali della politica di difesa italiana, sui fronti delle missioni internazionali e dell’impatto industriale, nel momento in cui il Governo Conte bis inizia ad operare.
Il Ministero della Difesa ha più importanza di quanto appaia sui media, a patto che il titolare ne sappia sfruttare il potenziale. In questa chiave si può fare molto in ambito transatlantico, nel quadro europeo e nell’arco di crisi che dal Sahel all’Afghanistan ha un impatto diretto o indiretto sulla sicurezza e gli interessi nazionali.
Stabilizzazione e partenariati dall’Africa al Medio Oriente …
Il punto di partenza è che le forze armate non dovrebbero intervenire in Italia per attività di sicurezza interna o protezione civile se non nei casi di emergenza previsti dalla normativa vigente. Sgombrato il campo da visioni distorte dello strumento militare, due sono gli aspetti chiave della politica di difesa: quello operativo e quello della politica industriale.
Sul fronte operativo, da decenni l’impegno nelle missioni internazionali persegue da un lato interessi nazionali direttamente collegati al teatro di intervento, quali la stabilizzazione di regioni importanti per l’Italia, dal Kosovo alla Libia. In quest’ultima la presenza militare a Misurata e Tripoli va meglio inserita in una strategia complessiva per la riconciliazione nazionale, che andrà sostenuta nel lungo periodo anche dalla presenza attiva delle forze armate italiane, ad esempio con compiti di formazione dei partner e delle istituzioni locali.
Sempre nel Mediterraneo, mutatis mutandis, la missione UNIFIL II per mantenere la tregua tra Hezbollah e Israele ha rappresentato un’ancora di stabilità e sicurezza negli otto anni di guerra regionale combattuta nella confinante Siria, contribuendo ad evitare la destabilizzazione del Libano (e a ruota della Giordania) con conseguenti effetti negativi ad esempio in termini di profughi verso l’Europa. La guida italiana della missione per molti anni ha riscosso apprezzamenti sia nella regione sia tra gli alleati europei che in ambito Onu. Ora è il momento di assicurare una maggiore presenza politica dell’Italia, di concerto con altri Paesi europei già attivi in loco come la Francia, per far sì che la presenza militare nel Levante sia parte di una strategia più ampia di stabilità regionale.
… e ai Balcani, dove la stabilità è un risultato conseguito
Stabilità regionale già ampiamente raggiunta nella ex Jugoslavia, dove il contingente in Kosovo e il comando italiano della forza Nato sono più che altro una polizza di assicurazione contro un’eventuale ripresa delle tensioni. Ma, come per ogni polizza, è il caso di pagarne il costo, se in gioco vi sono la stabilità di una regione così prossima all’Italia e l’influenza italiana nei Balcani occidentali. Senza contare che il contingente contribuisce attivamente alla formazione della componente militare delle istituzioni kosovare, mettendole quindi in grado nel medio-lungo periodo di rendersi autonome e integrarsi in un quadro Ue e Nato.
Proprio le attività di Defence and Security Capacity Building nelle missioni internazionali, e più in generale nel quadro di partenariati bilaterali o multilaterali, sono un tratto distintivo della presenza in Africa e Medio oriente, dalla Tunisia al Niger alla Giordania. Queste attività vanno dunque valorizzate in chiave di stabilità regionale, di contrasto al terrorismo e/o al traffico di esseri umani e, in generale, di protezione e promozione degli interessi nazionali.
Al tempo stesso occorre mantenere nelle forze armate la capacità e la prontezza operativa necessaria per escalation delle crisi, sempre possibili in regioni instabili e affette dalla competizione – se non dai conflitti – tra le potenze regionali. Ad esempio, non è escludibile a priori il bisogno di mantenere la libertà di navigazione ed evitare deflagrazioni pericolose negli Stretti di Hormuz tramite una missione navale internazionale, vista la tensione tra Iran da un lato e Stati Uniti e Arabia Saudita dall’altro.
L’investimento nella Nato e i rapporti con la Russia
La partecipazione a missioni internazionali che siano operazioni di stabilizzazione, mantenimento della pace o deterrenza tutela più o meno direttamente gli interessi nazionali. A livello multilaterale, inoltre, rafforza sia le organizzazioni internazionali dalle quali dipendono buona parte della sicurezza e stabilità dell’Europa – dalla Nato all’Ue – sia la posizione italiana al loro interno.
Mantenere un adeguato livello di impegno nella forza di deterrenza alleata nell’Est Europa, in particolare in Lettonia dove opera il contingente italiano, è importante sia per prevenire un’escalation da parte russa, sia per contribuire a negoziare una soluzione diplomatica con Mosca da una posizione occidentale non di debolezza. Tale impegno inoltre fornisce forza e credibilità alla voce italiana quando si tratta di definire la posizione dell’Alleanza nei confronti del Cremlino, e in generale sui dossier nell’agenda transatlantica. In questo come in altri casi, la politica di difesa è strettamente legata alla politica estera, e anche alla politica commerciale visto il ruolo delle sanzioni economiche nell’approccio occidentale alla Russia.
Sempre nel quadro Nato, in Afghanistan le sorti della missione Resolute Support dipendono dalle trattative di pace tra gli attori locali e tra questi e gli Stati Uniti. Qualunque ne sia l’esito, è importante per l’Italia essere presente nel processo decisionale Nato per non vanificare il lavoro di stabilizzazione svolto finora, e poi attenersi alle decisioni collegiali sull’entità e tempistica della missione. E’ qui in gioco la credibilità del Paese sulla partecipazione alle missioni e attività Nato: estemporanee fughe in avanti su ipotesi di ritiro creano un malus duro a sparire per la posizione italiana anche su altri dossier.
Infine, non bisogna guardare solo alle missioni internazionali in corso ma anche alle possibilità future. La Francia ha lanciato la European intervention initiative (Ei2) in vista di future necessità di impiego europee in teatri dove Stati Uniti e Nato non intervengano. L’Italia per molte buone ragioni è stata finora scettica sull’iniziativa, lanciata da Parigi senza collegamenti con la Cooperazione strutturata permanente (Pesco) e la difesa europea, e non si è fatta coinvolgere. Ma visto che ormai quel gruppo si è messo in moto e vi partecipano tutti i grandi Paesi dell’Europa occidentale, meglio farne parte per influenzarlo dall’interno che starne fuori e subirne l’azione. L’adesione di Roma all’iniziativa, anche visto l’interesse francese ad estenderla ad un partner militarmente capace come l’Italia, potrebbe quindi essere giocata come una carta di un negoziato più ampio con Parigi.
Niente nozze coi fichi secchi
In generale, le missioni internazionali non vanno considerate come un’ordinaria amministrazione che va avanti per inerzia. Sono piuttosto un pilastro della politica di difesa in ambito bilaterale e multilaterale, un moltiplicatore di influenza regionale e un supporto alla politica estera a 360 gradi rispetto a partner e avversari. In quanto tali, andrebbero trattate in modo strategico anche dai vertici politici.
Come le nozze non si fanno con i fichi secchi, così un pilastro del genere non si tiene in piedi solo con i fondi del decreto missioni approvato dal Parlamento, volti a coprire i costi operativi del dispiegamento in teatro. A monte, servono investimenti costanti e adeguati nello strumento militare e in particolare nelle capacità operative, sia nell’addestramento del personale, che nella manutenzione e ammodernamento degli equipaggiamenti per non ritrovarsi un parco macchine inutilizzabile.
Con la legge di stabilità alle porte e il Documento programmatico pluriennale della difesa già approvato dal precedente ministro, nei prossimi mesi si possono realisticamente realizzare già due punti importanti. Da una parte un leggero aumento del bilancio per soddisfare le necessità impellenti e dare il segnale che non si sono dimenticati gli impegni internazionali sul 2% del PIL destinato alla difesa e dall’altra un fattibile spostamento di risorse dagli stipendi del personale a favore appunto di operatività, addestramento, e investimenti.
Nel complesso, insomma, la base di partenza per sostenere una politica di difesa che, in particolare sul lato operativo, sfrutti il potenziale politico del Ministero per l’azione del governo italiano. (1 – segue)