Attacco all’Arabia Saudita: l’Iran rilancia la sfida a Trump
E’ evidente che il recente attacco all’impianto petrolifero saudita di Abqaiq rappresenta un ulteriore salto di qualità nel confronto regionale imperniato sulla contrapposizione Usa–Iran, attorno alla quale ruotano conflitti che vanno dallo Yemen al Libano.
Si è spesso parlato dei rischi connessi a una possibile chiusura dello Stretto di Hormuz da parte dell’Iran, mentre si è sottovalutata la vulnerabilità di un impianto come quello di Abqaiq, cruciale per l’intera industria petrolifera saudita.
Situato nella Provincia Orientale del regno, esso processa circa sette milioni di barili al giorno, all’incirca equivalenti all’intera quantità di greggio esportata dal Paese. Un suo prolungato malfunzionamento è in grado di influenzare pesantemente il mercato petrolifero mondiale.
Una regia iraniana?-
L’attacco all’impianto è stato rivendicato dagli Huthi, gruppo sciita contrapposto a Riad nella sanguinosa guerra yemenita, ma Washington ha accusato Teheran dell’accaduto, ipotizzando che l’operazione sia stata condotta non da sud, bensì da nord, forse dal territorio iracheno se non addirittura da quello iraniano (eventualità, quest’ultima, in realtà improbabile per evidenti esigenze di “plausible deniability” da parte di Teheran).
Dalle prime informazioni risulta che l’attacco sarebbe stato compiuto da un mix di oltre 20 droni (alcuni dei quali ‘suicidi’) e missili cruise che hanno colpito almeno 17 obiettivi nell’impianto di Abqaiq (e in quello vicino di Khurais) in un’operazione estremamente complessa e ‘chirurgica’.
Non è la prima volta che gli Huthi attaccano obiettivi in profondità nel territorio saudita (tra cui un oleodotto e un aeroporto), ma un’operazione di questa portata è senza precedenti per le loro capacità militari. Sebbene si parli da tempo degli aiuti che il gruppo riceverebbe dall’Iran, l’incidente di Abqaiq sembrerebbe indicare un ulteriore salto di qualità nel livello di coordinamento militare con Teheran.
L’evidenza di una crescente coesione fra l’Iran e i suoi alleati regionali sarebbe ancora maggiore nel caso di un attacco condotto da milizie sciite irachene e rivendicato dagli Huthi. In altre parole, a prescindere dall’eventualità che l’operazione sia stata condotta dallo Yemen o dall’Iraq, è difficile ipotizzare che dietro di essa non ci sia una regia iraniana.
Improbabilità dell’incontro Trump-Rohani
Resta allora da capire perché i vertici militari iraniani avrebbero deciso una simile azione proprio mentre circolava l’ipotesi di un possibile incontro fra il presidente statunitense Donald Trump e quello iraniano Hassan Rohani all’imminente Assemblea generale dell’Onu, e a pochi giorni dalle dimissioni del consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, uno dei principali falchi dell’Amministrazione Usa.
Senza bisogno di scomodare l’ipotesi di una frattura tra moderati e intransigenti all’interno della leadership iraniana, o di una improbabile azione di sabotaggio compiuta dalla Guardia rivoluzionaria, va rilevato che dal punto di vista di Teheran la prospettiva di un incontro Trump-Rohani, con il Paese ancora sotto il giogo delle sanzioni, non è mai parsa plausibile.
Lo stesso segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, considerato una delle voci più moderate dell’Amministrazione Trump, aveva ribadito nei giorni scorsi che un allentamento dell’embargo iraniano non era previsto, e che la proposta francese di una linea di credito di 15 miliardi di dollari all’Iran avrebbe comportato una violazione delle sanzioni Usa.
Dalla prospettiva iraniana, un dialogo con Washington in assenza di un allentamento della strategia americana di “massima pressione” è inaccettabile. Secondo Teheran, le sanzioni sono esse stesse un atto di guerra, a cui l’Iran ha diritto di rispondere con atti ugualmente aggressivi (militari e non militari, come il mancato rispetto di alcuni obblighi previsti dall’accordo nucleare).
Tali atti sono volti in ultima analisi a far riacquistare potere contrattuale all’Iran per permettergli di affrontare un futuro negoziato con gli Usa su una base di relativa parità.
Arabia Saudita come ‘ventre molle’ dello schieramento anti-iraniano
C’è poi da considerare il contesto regionale. La scelta di Tel Aviv di estendere al teatro iracheno i propri attacchi contro gli alleati non statuali di Teheran, e di bombardare con dei droni obiettivi di Hezbollah a Beirut, ha innalzato il livello dello scontro fra Israele e Iran. Finora, tuttavia, vi era stata una risposta pressoché nulla da parte iraniana (se si eccettua una rappresaglia di Hezbollah al confine israeliano conclusasi senza vittime per Israele).
L’attacco all’impianto di Abqaiq sarebbe dunque, a giudizio di alcuni, una risposta iraniana indiretta nei confronti di quello che è percepito da Teheran come un unico schieramento costituito da Washington, Tel Aviv, Riad e Abu Dhabi. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti costituiscono agli occhi dell’Iran il ‘ventre molle’ di questo schieramento, dove è possibile colpire presumibilmente rimanendo sotto la soglia che rischia di provocare una reazione militare americana (o israeliana).
Sia Riad che Abu Dhabi si rifiutarono di accusare Teheran quando alcune loro petroliere subirono misteriose azioni di sabotaggio nei mesi di maggio e giugno. Entrambi questi Paesi sono consapevoli degli enormi rischi che correrebbero nel caso in cui scoppiasse un conflitto tra Usa e Iran nel Golfo.
Teheran pronta a rischiare lo scontro armato
Nella capitale iraniana, moderati e intransigenti sembrano relativamente compatti nel sostenere l’attuale scelta di alzare la posta in gioco fino a quando Washington non rimuoverà le sanzioni. Questa condotta si fonda anche sulla consapevolezza che Trump, a differenza di alcuni esponenti della sua Amministrazione, non sembra disposto a farsi trascinare in uno scontro militare che porrebbe una pesante ipoteca sulla sua rielezione.
Ma quella iraniana è una scommessa rischiosa, che mette in conto anche l’eventualità di un conflitto devastante, alla quale i vertici di Teheran sembrano essere pronti.
La strategia della “massima pressione” sta dunque ponendo il presidente statunitense in un vicolo cieco. Egli può ancora rimuovere le sanzioni e riaprire un dialogo con l’Iran partendo dall’accordo nucleare da lui precedentemente violato. Ma più indugerà a compiere questo passo, più si esporrà a una retromarcia umiliante mostrando che gli Stati Uniti sono deboli e possono essere sfidati dai loro avversari.
Perseverando nell’attuale strategia, invece, egli continuerà a provocare la reazione iraniana, la quale potrebbe spingerlo verso un conflitto rispetto al quale i danni provocati dall’attacco ad Abqaiq appariranno un’inezia.