IAI
18 anni dopo l'attacco all'America

11 settembre: crisi d’identità per la politica estera Usa

11 Set 2019 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

L’11 Settembre 2001 è ricordato – a ragione – come uno spartiacque nella storia delle relazioni internazionali e, nello specifico, come uno spartiacque nella storia più recente della politica estera statunitense. Da quel giorno in poi, più che al declino della potenza americana, si assistette al declino dell’unipolarismo americano, provocato dall’ascesa della Cina in Asia, dal consolidarsi del processo di integrazione degli Stati europei, da una progressiva diminuzione dell’influenza statunitense in America Latina e, con l’affermarsi di Vladimir Putin, dalla ripresa della potenza russa.

La strada verso l’11 Settembre
Il 9/11 fu il catalizzatore di una serie di eventi iniziati a partire dalla fine degli anni ‘70 del ‘900, con l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Urss. Conclusa la lotta contro l’Urss usufruendo del supporto saudita, pakistano e statunitense e dopo aver studiato nella scuole coraniche pakistane, alcuni nativi afghani, i talebani, cioè gli studenti, imposero nel loro Paese un governo oscurantista, sfruttando le vulnerabilità di quel che rimaneva delle istituzioni statali.

Noti per l’applicazione rigorosa di alcune norme che, agli occhi occidentali (ma anche di molti musulmani), rappresentano la sintesi fondamentalista dei precetti più retrogradi della tradizione islamica (nel caso afghano, mescolati a una serie di tradizioni locali arcaiche a carattere misoneista), i talebani riuscirono a estendere in molte aree del Paese la loro influenza. Qui trovarono rifugio anche i fondatori di al-Qaida.

Fu grazie all’acquiescenza e alla protezione dei talebani che al-Qaida riuscì a consolidare la propria presenza in territorio afghano. Osama bin Laden, infatti, fu beneficiario diretto di una norma del pashtunwali, l’antico codice sociale pashtun, gruppo etnico maggiormente rappresentativo dei talebani. Nello specifico, la norma denominata ‘melmastia’ – ospitalità – prevede, tra l’altro, che un ospite non deve essere consegnato a un suo nemico. Il che spiegherebbe il rifiuto talebano di consegnare bin Laden agli Stati Uniti dopo l’11 Settembre.

Sottovalutazione di al-Qaida e impreparazione occidentale
L’11 Settembre fu minuziosamente studiato, nelle grotte al confine tra l’Afghanistan e il Pakistan, da chi beneficiava dei vantaggi della sottovalutazione da parte delle intelligence occidentali ed era pronto a capitalizzare sull’effetto sorpresa di un’azione resa possibile, di fatto, anche dall’impreparazione e dall’approssimazione con cui si guardava al fenomeno jihadista.

Tramite l’utilizzo consapevole dei media internazionali, al-Qaida creò le condizioni che le permisero di entrare nel circuito dell’informazione planetaria. In questo modo, e per qualche tempo, la tesi di Samuel Huntington sullo “scontro tra civiltà”, che era l’obiettivo di al-Qaida, sembrò acquisire tangibilità.

Non ci si rese conto che la tesi poggiava su basi fragili, in quanto generalizzava concetti che, nel mondo musulmano, sono di fatto condivisi da una minoranza di individui. Molte infatti furono le critiche fra gli islamisti, fra cui quella dell’enigmatico Yusuf al-Qaradawi, attivista politico della Fratellanza Musulmana e personaggio televisivo – conduttore del programma ‘La via e la vita’ su Al-Jazeera -.

Il significato dell’11 Settembre per la politica estera americana
Dopo la fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti si ritrovarono a essere l’unica superpotenza globale. Ma l’estenuante scontro politico durato decenni (e fatto di alti e bassi) con l’Urss aveva contribuito a plasmare parte dell’identità americana. In sostanza, la visione dicotomica del mondo durante la Guerra Fredda aveva offerto agli Stati Uniti le più esemplari giustificazioni per impostare ideologicamente qualsiasi intervento o tentativo di estensione d’influenza nelle diverse aree del globo.

Al venir meno di questi presupposti, la politica estera degli Stati Uniti visse una vera e propria crisi d’identità, specialmente in relazione al nuovo ruolo di Washington nel mondo e all’utilizzo dell’hard power. In proposito, emblematiche sono le dichiarazioni al Congresso fatte dal presidente George W. Bush pochi giorni dopo gli attentati: “Great harm has been done to us. We have suffered a great loss, and in our grief and anger, we have found our mission and our moment“.

Bush esplicitava un sentimento largamente presente nei decisori politici americani: l’11 Settembre restituiva ‘senso’ alla politica estera americana, come se questa potesse esplicarsi necessariamente (ed esclusivamente) in contrapposizione a una figura antagonista. Decenni di cultura dello scontro, e di bipolarismo, avevano evidentemente infuso in una parte dell’establishment statunitense questo modello cognitivo.

Dopo l’Iraq e l’Afghanistan
Si potrebbe quindi affermare che molti decisori politici americani non avessero gli strumenti culturali e conoscitivi per potere comprendere appieno la minaccia terroristica di matrice jihadista. Le azioni intraprese dagli Stati Uniti a seguito dell’11 Settembre sono esemplari a questo riguardo. Con l’invasione dell’Iraq, il risultato non valutato è stato quello di spianare la strada verso il consolidamento della posizione iraniana a potenza regionale – per alcuni minacciosa -. In Afghanistan, lievi miglioramenti vengono ancora controbilanciati da una condizione securitaria, economica e dei diritti umani a dir poco negativa.

Il recente fallito accordo con i talebani è l’ultima di una serie di incertezze nella strategia americana; e l’uscita di scena del consigliere per la Sicurezza nazionale di Donald Trump, John Bolton, è emblematica delle ruggini presenti all’interno dell’Amministrazione statunitense.

E’ un indice delle difficoltà che ancora sono alla base della strategia americana in Afghanistan e, più in generale, in Medio Oriente. La guerra in Iraq (secondo Obama una “war of choice”, in contrapposizione con quella afghana, che definì “war of necessity”, proprio per rimarcarne le differenti motivazioni) è stata controproducente; la guerra in Afghanistan ha perso la sua ragione d’essere da anni.

Ma allora, perché continuare? In questa domanda sta probabilmente il dilemma di cosa debba essere, e in che cosa si sostanzi, la potenza americana oggi. Un quesito che negli Stati Uniti, dalla fine della Guerra Fredda a oggi, fa fatica a trovare una risposta univoca.