Tunisia: Essebsi, luci e ombre d’un presidente post-rivoluzionario
Beji Caid Essebsi, primo presidente eletto della Tunisia post-rivoluzionaria, è deceduto all’età di 92 anni lo scorso 25 luglio, giorno in cui il Paese celebra la festa della Repubblica.
Dopo l’annuncio della sua scomparsa, il presidente del Parlamento Mohammed Ennaceur è subentrato ad interim e dovrà subito decidere cosa fare della nuova e controversa legge sull’esclusione di alcuni candidati alle presidenziali che il suo predecessore non aveva firmato. Inoltre, poiché la Costituzione prevede che il periodo di reggenza provvisoria non superi i 90 giorni, sarà necessario anticipare l’appuntamento elettorale per le presidenziali, già previste per il 17 novembre dopo le legislative del 6 ottobre.
I tratti dell’uomo e della presidenza
Figura indubbiamente carismatica e ‘uomo forte’ al potere, lo scomparso presidente è stato uno dei protagonisti del post-2011: specchio del modernismo tunisino e garante della stabilità per alcuni, simbolo della controrivoluzione per altri. Nonostante avesse riunito sotto la sua egida un composito mosaico di forze politiche in chiave anti-islamista con la creazione di Nidaa Tounes nel 2012, proprio la sua intesa con Rached Ghannouchi, leader del partito di ispirazione islamica Ennahda, è considerata alla base del successo della transizione politica tunisina. Tale accordo, concretizzatosi tanto nel “dialogo nazionale” a seguito della crisi politica del 2013 che nel governo di coalizione post-2014 e di “unità nazionale” dal 2016, si presenta come una sorta di “compromesso storico” che ha salvato il Paese dal caos in momenti in cui sembrava sull’orlo del precipizio.
La presidenza di Essebsi è anche nota per aver fortemente voluto la legge contro la violenza sulle donne approvata a luglio 2017, la quale abroga, fra l’altro, il “perdono” con “matrimonio riparatore” per i responsabili di stupro, e l’abolizione di una circolare del ’73, secondo cui una donna tunisina di fede musulmana non poteva contrarre matrimonio con un non musulmano e, infine, più recentemente, la proposta di legge sulla parità uomo-donna in materia di eredità contraria al diritto islamico.
Scelte nel solco di Bourghiba, ma anche opportuniste
Se da una parte questi provvedimenti si collocano nel solco della “tradizione modernista e riformatrice” di Habib Bourghiba, di cui lo scomparso presidente rivendicava l’eredità morale, dall’altra, sono apparsi alquanto strumentali, in particolare per ciò che riguarda la questione ereditaria, nodo particolarmente complesso sul piano giuridico e di grande impatto mediatico e sociale. Alcuni critici hanno puntualmente osservato come la proposta sia coincisa con un’ennesima crisi interna al suo partito da cui Essebsi avrebbe voluto distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica. Inoltre, con l’approssimarsi delle elezioni, è sembrata una mossa per ridefinire lo scontro politico in chiave ideologica, secondo uno schema già sperimentato in precedenti campagne elettorali, che vorrebbe contrapposti un presunto modello societario secolare ed improntato alla modernità, contro un altrettanto presunto progetto oscurantista e retrogrado incarnato dagli islamisti.
Del resto, anche la cosiddetta “Circolare 73” era stata annullata nel giorno in cui, dopo un iter complesso ed accese discussioni in aula, il Parlamento approvava la controversa legge sulla “riconciliazione amministrativa”. Proposta da Essebsi nel 2015, la legge prevede nella sua ultima versione una forma di condono per i funzionari pubblici dell’epoca di Ben Ali coinvolti in casi di cattiva gestione delle casse statali, sanzioni pecuniarie per i detentori di patrimoni all’estero non dichiarati, e l’annullamento di altri procedimenti giudiziari in corso. Scatenando da subito proteste di piazza convogliate nel movimento Manich Msameh (“Io non perdono”, in dialetto tunisino), la “riconciliazione” è stata ampiamente vissuta come un’assoluzione e impunità per gli esponenti del vecchio regime, nonostante la propaganda ufficiale la presentasse come un necessario passo in avanti per il Paese volto a rilanciare l’economia e recuperare capitali.
L’insofferenza alla resa dei conti con il passato
D’altro canto, l’insofferenza di Essebsi al clima di resa dei conti col passato, ritenuto inutilmente divisivo e di ostacolo al progresso della Tunisia, era emersa chiaramente in occasione dei lavori della Commissione di Verità e Dignità (Instance Vérité et Dignité, Ivd), pietra angolare del processo di giustizia di transizione formalmente chiusosi a fine 2018. Secondo un rapporto dell’Ivd, il presidente avrebbe dovuto essere rispondere all’accusa di complicità nella tortura di prigionieri politici quando era ministro dell’Interno (1965 – 1969) e prima ancora per avere supervisionato arresti di massa e processi sommari contro dissidenti politici all’inizio degli Anni Sessanta in qualità di direttore alla sicurezza nazionale dopo il fallito golpe del ‘62.
Essebsi ha impersonato una cultura politica di cui potere personale e centralità dello Stato rappresentano i pilastri fondamentali, secondo un modello di governance che fa di stabilità e sicurezza le sue direttrici principali. In particolare a seguito degli attentati terroristici del 2015, la presidenza ha centralizzato sempre più il processo decisionale e rafforzato le sue prerogative nell’esecutivo, soprattutto in materia di sicurezza.
Più volte negli ultimi anni Essebsi ha sostenuto la necessità di una revisione costituzionale che garantisse maggiori poteri al presidente per uscire dall’immobilismo di Parlamento e governo. Da tale prospettiva, questi ultimi sarebbero sì espressione di una pluralità di istanze ma anche ostaggio di molteplici interessi personali ed eccessivamente polarizzati, quindi inadatti ad affrontare le sfide economiche e securitarie del Paese. E proprio la lentezza delle riforme e il mancato miglioramento economico in cui molti avevano sperato con la rivoluzione hanno contribuito a far crescere la disillusione rispetto al nuovo modello democratico. Così, la presidenza di Essebsi, intraprendente e volitiva e fortemente legittimata dal mandato popolare diretto, ha alimentato la retorica nostalgica per un “uomo forte” alla guida del Paese.
La prospettiva delle elezioni
Essebsi, così come Ghannouchi, ha incarnato i tratti principali della politica tunisina post-rivoluzionaria. Uomini politici di esperienza e dal grande carisma personale, campioni del compromesso e della real politik, sono anche espressione di una classe dirigente che fatica a rinnovarsi promuovendo nuove figure capaci di credito e seguito non solo su un orizzonte temporale limitato ma anche e soprattutto nel lungo periodo.
E ancora una volta la Tunisia si recherà alle urne in un contesto di sostanziale appiattimento ideologico al netto di sparute eccezioni, incapaci tuttavia di uscire dalla loro dimensione estremamente elitaria intercettando fette più grandi di elettorato. In parallelo, si ergono facili populismi e nuovi nazionalismi, come il partito di destra conservatrice e ultra-nazionalista di Abir Moussi, il Parti Destourien Libre.
Sullo sfondo, un clima caratterizzato, da una parte, da grande disaffezione popolare nei confronti della politica dei partiti, come ha mostrato l’elevato astensionismo alle prime elezioni municipali del maggio 2018 (si è registrato poco più di un 35 % di affluenza) e il voto massiccio per gli ‘indipendent’” che, complessivamente, ha scavalcato quello alle formazioni-partito. Dall’altra, una classe politica che si ripropone all’elettorato come estremamente atomizzata tra partiti personali che, nonostante lo sviluppo di un micro-notabilato sul territorio, mancano di un vero ancoraggio sociale e sono legati a doppio filo alla celebrità dei loro fondatori, molto spesso avventurieri più che leader politici.